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Associazioni 10 Giu 2009

Il Coordinamento delle Associazioni di stampa per un sindacato di Servizio: "Oltre il referendum, per gestire il nuovo contratto, per contrastare gli stati di crisi e difendere il dovere di informare"

Referendum sul contratto, stati di crisi, difesa del dovere di informare contro il ddl Alfano, ripresa dell'iniziativa sindacale, stati generali dell'informazione: l'analisi del Coordinamento delle Associazioni per un Sindacato di Servizio diffusa dal portavoce Felice Salvati.

Referendum sul contratto, stati di crisi, difesa del dovere di informare contro il ddl Alfano, ripresa dell'iniziativa sindacale, stati generali dell'informazione: l'analisi del Coordinamento delle Associazioni per un Sindacato di Servizio diffusa dal portavoce Felice Salvati.

"A urne ancora calde c’era già chi gridava al broglio e al complotto. Il “cartello” delle opposizioni interne alla Fnsi ha diramato una nota con la quale imputa al gruppo dirigente del sindacato dei giornalisti di avere… “tramato” per convincere i colleghi a votare sì, ovvero avere spiegato - non lesinando certamente impegno e passione – quale fosse la posta in gioco del referendum sul contratto. Oltre le polemiche, il referendum ci dice che la percentuale di votanti è più bassa di quella di qualsiasi altra analoga consultazione organizzata da altri sindacati su contratti nazionali. La relativa desertificazione dell’urna referendaria (9.8% la partecipazione al voto) ha più di una ragione: la stanchezza dei colleghi che con frequenza quasi mensile sono chiamati a votare per qualcosa: fondo di previdenza integrativa, rinnovo degli organismi dirigenti di numerose associazioni regionali, referendum, Casagit. E’ plausibile che il non-voto rifletta anche una certa insofferenza per uno strumento ritenuto un po’ troppo rozzo per decidere della qualità di un articolato complesso quale quello contrattuale. E’ probabile che le dinamiche stesse di una “campagna elettorale”, ovvero la necessità di alzare i toni, abbia contribuito ad abbassare la qualità della fotografia della realtà che si voleva rappresentare. Ci sono colleghi che vivono con profondo malessere un quotidiano sempre più faticoso, impiegatizio, sottoposto e subalterno alle ragioni del marketing. Colleghi che non si sono sentiti rappresentati dalle roboanti parole d’ordine tanto del sì quanto del no. In ogni iniziativa si commettono anche errori, ci sono sbavature, si allude a circostanze in maniera poco accurata o difficilmente verificabile, lo slogan prevale sull’analisi dei problemi. Questo vale per entrambe le parti. La qualità dell’informazione e della comunicazione ha pagato dazio all’animosità dei fronti contrapposti. Il confronto tra i giornalisti italiani è stato all’altezza dei problemi che sono di fronte al sistema dell’editoria o lo strumento scelto per consultare la categoria ha reso il servizio necessario? Lo strumento referendum si è rivelato adeguato rispetto alle esigenze di democrazia reale e manifestazione di consapevole consenso (o dissenso)? Noi crediamo sia necessario ripensare criticamente al referendum e riteniamo comunque non possa essere lo strumento sul quale incardinare la democrazia sindacale. L’esito del voto – pur ampiamente positivo per le ragioni che la nostra parte ha sostenuto - non sposta i termini della riflessione. L’asprezza della crisi che investe il settore dell’editoria e della carta stampata (-26 per cento il calo del fatturato pubblicitario ad aprile 2009 su aprile 2008; fonte la federazione delle concessionarie pubblicitarie della carta stampata) impone di lavorare su strategie di respiro più ampio di un singolo rinnovo contrattuale. Dopo avere urlato il sacrosanto sdegno contro la rottamazione dei colleghi bisogna ora mettere in campo una strategia efficace per limitare il ricorso ai tagli occupazionali indicando quindi le ragioni e le scelte utili a rilanciare il ruolo dell’informazione professionale che necessita di autorevolezza, autonomia, pluralismo, libertà e responsabilità. Dobbiamo riuscire a convincere le nostre redazioni della necessità di arrestare una deriva che puntando a tagliare i costi senza ripensare e investire sul prodotto e chi lo realizza ha finito per spolpare l’osso e dissipare il valore delle imprese editoriali. Sono in gioco la sostenibilità economica ma anche la credibilità del sistema dell’informazione che è questione rilevante anche sotto il profilo costituzionale. Non si esce dalla “crisi” avendo cura solo di imbastire manovre di breve periodo mirate solo a tappare i buchi nei conti, trascurando investimenti sulle risorse umane che maturano frutti nel lungo periodo ma mettono in cassaforte il vero patrimonio delle imprese editoriali: il rispetto dei lettori . La crisi ha carattere strutturale. Il patto sul welfare giornalistico sottoscritto a Palazzo Chigi ne riconosce la profondità e il carattere di novità ponendo per la prima volta anche a carico dello Stato l’onere di contribuire a finanziare i costi degli stati di crisi delle aziende editoriali. Tale patto è fondamentale per assicurare la sostenibilità dell’Inpgi, ma per il suo carattere difensivo e straordinario non può rappresentare la chiave di volta per uscire dalla crisi. Le scelte, le strategie messe in campo dai gruppi editoriali in questi ultimi quindici anni mostrano la corda. I “panini”, i “collaterali”, gli interventi tecnologici sui processi produttivi, i “dorsi” regionali hanno raschiato il fondo del barile della ricerca di maggiori ricavi a costi decrescenti. Ciò ha consentito ai grandi giornali nazionali di mantenere un alto profilo e strappare, anno per anno, risultati che sono valsi superpremi per i manager e plusvalenze per gli azionisti. Il conto l’hanno però immediatamente pagato i giornali regionali e oggi qualche crepa si manifesta anche nei conti delle iniziative editoriali locali. Si è mossa una slavina che ha sfasciato il mercato. I piccoli e medi editori sono stati i primi a dovere dare il via ad una corsa al risparmio il cui esito finale – modificati i sistemi editoriali, scaricati sui giornalisti ritmi e stili di lavoro impiegatizi – ha impoverito il prodotto, disperso risorse professionali, disamorato i lettori, dissipato valore e bruciato quote di mercato pubblicitario. Oggi si cerca di somministrare la stessa cura anche ai grandi giornali entrati a loro volta in sofferenza. La campagna elettorale referendaria – per le liturgie proprie di una campagna elettorale – ha lasciato sullo sfondo i rischi per la tenuta del sistema. Nuovi lettori stentano ad avvicinarsi alle edicole. L’ipotesi di fare pagare le notizie reperibili online è seducente ma rappresenta un’incognita e un Eldorado finora solo promesso. Difettano capacità e coraggio di mettere in campo azioni di medio e lungo periodo che invertano la tendenza. Si preferisce o si è costretti a campare alla giornata: lucrando premi sui tagli, raccattando aiuti di Stato, confidando che prima o poi il vento cambi direzione e la ripresa economica tonifichi anche il comparto dell’editoria. Il sistema perde incisività ed autorevolezza e i giornalisti misurano- ora con fastidio,ora con impotente apprensione - gli effetti di una campagna che soprattutto nei mesi scorsi ha puntato a fare breccia nell’opinione pubblica per bandire con i (pochi, ormai) privilegi propri della corporazione anche quelle regole che sono essenziali per tutelare l’autonomia della professione. In queste ultime settimane si è reso più evidente lo scontro durissimo tra chi aspira a porsi al di sopra e al di fuori delle regole in forza di un consenso misurato tra urne e sondaggi e chi ostinatamente ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sul fatto che nessun potere può sottrarsi al controllo democratico che in un società matura è esercitato anche dai media. Che il terreno di tale scontro possa sembrare avanspettacolo riflette i tempi e i costumi ma nulla toglie alla sostanza: quale ruolo e cittadinanza ha e deve avere l’informazione in questo Paese. Che fare? Non ci sono ricette preconfezionate. Decisiva è però una scelta di campo. Scegliere cioè di contrastare una deriva cui non siamo destinati. Non assecondare la corrente. Resta valida l’esortazione del presidente Carlo Azeglio Ciampi a tenere la schiena diritta. Ma la sorte avversa si contrasta anche rilanciando all’interno delle redazioni una battaglia sulle regole e i diritti che rispetto al passato deve avere come riferimento il lettore, la società civile. Una visione che contrasti la frantumazione corporativa del Paese. E’ tempo di tornare a battere i marciapiedi per rivendicare il dovere di informare, fare cronaca, soprattutto su materie delicate e sensibili quali quelle che traggono ispirazione dalle vicende giudiziarie che in Italia raccontano di un potere politico che aspira all’autoreferenzialità ma anche di una criminalità organizzata che aspira a farsi stato. E’ necessario riprendere l’iniziativa per rendere trasparenti i conflitti di interesse di quegli editori che controllano i mezzi di informazione ma non traggono dall’editoria che una frazione marginale dei loro profitti. Questioni che possono e devono unire quelle che un tempo si definivano le forze sane del Paese: stiano a destra o a sinistra del quadro politico. Bisogna riprendere in mano la professione, il giornalismo per ridare valore – sociale ed economico - al nostro lavoro. Queste ragioni devono potere essere rappresentate e sostenute dal sindacato in occasione degli stati generali dell’editoria che il governo si è impegnato a convocare. Il contratto di lavoro – non privo di ombre - ha un valore assoluto: riconosce il ruolo del giornalismo professionale. La tentazione di mettere in un angolo i giornalisti coltivando l’ambizione di un’informazione fai-da-te e l’evoluzione delle tecnologie della comunicazione hanno modificato l’accesso al mercato dell’informazione. Più notizie, ma anche più diseguaglianze. Non solo in termini di disponibilità, ma soprattutto di controllo circa la loro affidabilità e accuratezza. Un Paese che solo 50 anni fa era rurale ed oggi è frantumato in aree e comunità di interessi diversi ha bisogno di un sistema dell’informazione capace di rappresentare bisogni, aspirazioni, progetti che abbiano respiro unitario nazionale, restituiscano valore sociale all’agire individuale. Il contratto è essenziale, necessario ma non sufficiente. Una legislazione “alla carta” ha reso più precario il lavoro senza accrescere la competitività del sistema-Paese. Le imprese esposte alla competizione hanno teso a valorizzare anche le risorse umane e professionali, quelle impegnate a galleggiare sulla crisi hanno potuto abbassare il costo del lavoro e la soglia delle tutele anche in materia di sicurezza. Il quadro generale condiziona anche la qualità del giornalismo professionale. La valorizzazione del giornalismo professionale richiama infine anche la riforma dell’Ordine e dell’accesso alla professione. L’iniziativa sulla proposta di autoriforma è arenata. Una parte del vertice dell’Ordine sembra più interessato a creare divisioni nella categoria piuttosto che a ricercare consensi e stringere alleanze per fare avanzare le proposte sulle quali si sono realizzate utili convergenze. La riforma dell’accesso e quindi del modo in cui concretamente verrà ad articolarsi l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro giornalistico è essenziale per rendere più efficace la “resistenza” quotidiana ai fattori di crisi. Una resistenza che oggi si salda con la battaglia per la difesa del dovere di fare cronaca, potere scrivere e documentare. Un dovere di fare il nostro lavoro insidiato dal disegno legge Alfano che in questi giorni è in discussione in Parlamento. Per impedire l’oscuramento della cronaca giudiziaria sarà necessario mettere in campo tutta la forza del sindacato dei giornalisti, ma soprattutto avere cura di convincere e coinvolgere i lettori e altri soggetti: politici, sociali ed economici. Felice Salvati Portavoce del Coordinamento delle Associazioni Stampa per un Sindacato di Servizio Roma, 9 giugno 2009

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