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I 5 lavoratori di Cumhuriyet ancora in detenzione preventiva (Foto: @chrisdeloire)
Internazionale 15 Set 2017

Turchia, i riflettori si sono di nuovo spenti sulla 'più grande prigione per giornalisti al mondo'

Pubblichiamo un contributo del giornalista Umberto De Giovannangeli, esperto di Medio Oriente e Islam ed ex lavoratore dell'Unità , in cui l'autore ripercorre le tappe dell'inasprimento, graduale e costante, delle condizioni di vita e di lavoro dei colleghi turchi in questi ultimi anni.

di Umberto De Giovannangeli*

I riflettori si sono di nuovo spenti sul Paese che detiene il triste record dei giornalisti incarcerati: la Turchia. Con la sola, lodevole eccezione della Federazione nazionale della stampa italiana, con il presidente Beppe Giulietti e il segretario generale Raffale Lorusso, l’attenzione verso questo attacco frontale ad uno dei diritti fondamenta, quello ad una informazione libera e indipendente,  sembra appassire con il cambio di stagione. Che la comunicazione sia volabile, questo lo si mette in conto, anche se varrebbe forse la pena aprire una seria e autocritica discussione tra addetti ai lavori, ma dal mondo della politica, da chi ha responsabilità di governo, questa “dimenticanza” è inaccettabile, il silenzio colpevole, l’inazione complicità. Perché dietro questo comportamento, non solo italiano ma europeo, si cela una dose industriale di cattiva coscienza e di scelta strategica. In altre parole, non disturbare il “Gendarme” delle frontiere esterne, al secolo Recep Tayyp Erdogan.

Il “Sultano di Ankara” ha imprigionato oltre 150 giornalisti, chiuso giornali, cacciato editori, tutti colpevoli agli occhi del regime islamo-nazionalista di “minare alla sicurezza dello Stato”. Come? Dicendo la verità. Svolgendo il proprio mestiere. Indagando sui traffici di petrolio orditi in tempi non lontani da uomini vicini ad Erdogan, addirittura familiari, con gli islamonazisti dell’Isis. Quello che sta passando di nuovo in Europa è la logica, perversa, del “male minore”. Stabilito che il “male maggiore” è rappresentato dalla “invasione” inesistente di migranti, il resto viene da sé. Viene da sé chiudere gli occhi di fronte alla “Grande purga” portata avanti senza soluzione di continuità da un presidente che, in nome della sicurezza dello Stato e in risposta al fallito golpe dell’estate 2016, ha epurato oltre 135mila dipendenti pubblici, cacciato centinaia di accademici, professori, messo in galera parlamentari eletti liberamente… Per essere ancora più precisi: ill giorno dopo il fallito golpe del 16 luglio 2016, il governo Erdogan ha licenziato 2.745 giudici, un terzo del totale.

Non molto tempo dopo circa centomila funzionari pubblici, insegnanti e giornalisti hanno perso il lavoro. Lo stesso schema rischiamo di applicarlo oggi in Libia, come sta avvenendo in Siria con Bashar al-Assad, e a suo tempo (prima che divenissero testimoni scomodi da eliminare) con Saddam Hussein e Muammar Gheddafi. Se non sono i migranti, allora si chiudono gli occhi sui crimini perpetrati da dittature feroci e da raìs sanguinari in nome di una causa “superiore” da praticare: la guerra al terrorismo. Come dire: finché esistono criminali decapitatori come quelli di Daesh, finché è in vita Abu Bakr al-Baghdadi (come in passato Osama bin Laden), allora bisogna tenerci gli Erdogan gli al-Sisi, gli Haftar, gli Assad e via elencando.

I più dotti sosterrebbero che questa è la realpolitik, che il mondo libero per preservarsi deve pure entrare in relazione col mondo che libero non può essere (chissà mai perché). Ci sono gli interessi nazionali, la geopolitica, gli affari. Tutto, meno che i diritti umani, civili, sociali. Ecco allora il silenzio sui 150 giornalisti imprigionati in Turchia, sui quali pendono accuse gravissime, da pena di morte o carcere a vita. Il “Grande censore” turco ha dichiarato  guerra alla rete, oscurando Twitter, Facebook e Youtube, prendendo a pretesto la pubblicazione sui social media della foto del giudice Mehmet Selim Kiraz, il giudice preso in ostaggio da militanti del gruppo marxista Dhkp-c, e ferito mortalmente dalle teste di cuoio turche nel blitz per liberarlo. Parlava di libertà, il “Sultano” di Ankara, e al tempo stesso, già  2013 si scagliava contro i social network bollandoli come una delle “più grandi sciagure dell’umanità”.

A lanciare un inascoltato grido d’allarme per l’attacco ad una informazione è stato  anche il premio Nobel per la letteratura, Orhan Pamuk: “La cosa peggiore – affermò Pamuk in una intervista al quotidiano  “Hurriyet” ripresa da Repubblica - è che c’è un clima di paura. Trovo che tutti abbiano paura, questo non è normale. La libertà di espressione è giunta a un livello molto basso”.  Quanto alla libertà di stampa, lo scrittore annota con preoccupazione: “Molti miei amici mi hanno detto che loro colleghi hanno perso il posto di lavoro. Adesso, persino reporter vicini al governo hanno iniziato a essere infastiditi”. L’attacco alla libertà d’informazione, dunque, si sviluppa sistematicamente ormai da anni. A evidenziarlo con chirurgica precisione è John C.Hulsman,  tra i più autorevoli analisti internazionali, membro permanente del Council on Foreign Relations: “Dopo le proteste di piazza Taksim dell’estate 2013 – annota lo studioso – e in linea con l’impressione trasmessa di voler rifuggire qualsiasi responsabilità per i mali che affliggono il Paese, l’allora premier (Erdogan, ndr) è riuscito a convincere la base conservatrice e moderatamente islamista del suo elettorato che i disordini erano stati fomentati dai media occidentali ed ebraici in giro per il mondo. La sua reazione immediata a queste manifestazioni squisitamente autoctone è stata l’invio della polizia antisommossa, che ha fatto generoso uso di gas lacrimogeni. Purtroppo la teoria del complotto è sembrata funzionare in casa, mentre è stata accolta con sdegno all’esterno, specie in Europa e negli Stati Uniti”.

Ma questo è solo l’ennesimo esempio di una crescente deriva autoritaria del “Sultano”. “In tutti questi casi – spiega Hulsman – la risposta di Erdogan è stata tentare di imbavagliare la stampa, riempire magistratura e servizi di sicurezza di uomini fidati e cambiare le leggi per reprimere gli sforzi investigativi. Il premier attacca regolarmente la libera stampa e i giornalisti indipendenti ed escogita bizzarri tentativi di censurare Internet. Secondo le informazioni riportate dal quotidiano “Hurriyet” sarebbero 131 i media chiusi perché accusati di far parte della struttura parallela del magnate e imam Fethuallah Gulen, ritenuto la mente del tentato golpe del 15 luglio. Si tratta, nello specifico, di 3 agenzie, 16 canali televisivi, 23 radio, 45 quotidiani, 15 riviste e 29 case editrici. Tra i quotidiani chiusi spiccano i nomi di “Zaman” e “Taraf”. Il primo, in particolare, per anni è stato il quotidiano più letto nel Paese. Provvedimenti, quelli assunti dal  governo di Ankara, che suscitano preoccupazione nella Ue: "È preoccupante che, a seguito dell'entrata in vigore dello stato d'emergenza in Turchia, molti giornalisti siano stati arrestati e vari media siano stati chiusi", afferma una portavoce della Commissione europea commentando quanto avviene in Turchia. "La libertà di espressione è uno dei valori fondanti dell'Ue e in questo quadro la Turchia, in qualità di Paese candidato" all'ingresso nell'Unione "deve aspirare ai più alti standard democratici, incluso sulla libertà dei media", rileva il portavoce, aggiungendo: "Il diritto al giusto processo deve essere rispettato. È importante che le autorità turche rispettino lo stato di diritto ed i diritti umani e quelli fondamentali".

Indicazioni che il “Sultano di Ankara” ha bellamente irriso e cestinato. Racconta a “Radio Popolare” l’intellettuale e giornalista turco Ahmet Insel. Laureato alla Sorbona, ex docente universitario, Insel è editorialista del quotidiano turco” Cumhuriyet”, falcidiato dagli arresti del regime,  e dirige la casa editrice Iletisim. E’ autore del volume “La nouvelle Turquie d’Erdogan, Du rêve démocratique à la dérive autoritaire (Francia, 2016)”: “Le cose in Turchia sono peggiorate, grosso modo, da quattro anni. Le proteste di Gezi Park nel 2013 hanno creato panico nel governo: da quel momento ha voluto controllare la stampa sempre di più. E dato che i media della confraternita Gülen hanno attaccato sempre di più il governo, Erdogan ha cominciato a vedere nella stampa il pericolo principale. Questo processo – rileva Insel - era già cominciato prima del tentativo di colpo di stato del luglio 2016. Dopo il colpo di stato, l’attacco alla stampa è diventato generale e ha coinvolto anche la stampa di sinistra e la stampa curda. Non si tratta solo di pressioni o di chiusura dei giornali o delle televisioni, ma si è passati direttamente all’arresto dei giornalisti. A partire dal 2011 la situazione è ulteriormente peggiorata e dopo il colpo di stato del 2016 – con l’imposizione dello stato di emergenza – non abbiamo più libertà d’espressione in Turchia. Esiste oggi in Turchia una democrazia aleatoria, arbitraria. Io sono cronista nel giornale Cumurriyet. Lo pubblichiamo rispettando la nostra linea editoriale di opposizione, ma undici dei nostri colleghi sono in prigione da più di sei mesi. Perché io non sono in prigione? Perché invece sono in prigione i miei colleghi? Non lo sappiamo. Potrei essere al loro posto: non hanno scritto niente di più di quanto ho scritto io. Il giornale continua a uscire, ma in condizioni molto difficili.

Sono centinaia i giornalisti in prigione in Turchia. La Turchia è diventata la più grande prigione per giornalisti al mondo. Ho vissuto la repressione degli anni ’90, che noi in Turchia chiamavamo gli anni di piombo, poi una vera primavera di libertà di stampa negli anni 2000. Oggi la situazione è simile a quella che io ho vissuto all’inizio degli anni ’80, dopo il colpo di stato militare”. Ecco cosa è oggi la Turchia di Erdogan: un Paese sotto il tallone di ferro di un regime islamo-nazionalista che tratta ogni oppositore come una minaccia alla sicurezza dello Stato. E se lo combatti con la forza delle idee e con i tuoi scritti sei ancora più pericoloso”. Lo sa bene Asli Erdogan (nessuna parentela col Presidente) . Lei in carcere ha trascorso 136 giorni con l’accusa di “terrorismo”. “Devo quel po’ di libertà che ho adesso al sostegno internazionale – sottolinea la scrittrice in una recente intervista all’Ansa -.  Senza questo, probabilmente sarei rimasta in prigione e, se non fossi morta, anche per le mie condizioni di salute, sarei stata rilasciata con tante scuse solo dopo anni. Ormai lo stato di diritto non esiste più. Può accadere qualsiasi cosa. Tantissimi giudici sono in galera. Può toccartene uno di 25 anni, che magari cerca di fare buona impressione sul suo capo, o semplicemente di non finire a sua volta sotto accusa: è molto difficile credere ancora nella giustizia. Il mio è stato uno dei casi più ridicoli e kafkiani. E credo sia un messaggio per tutti gli intellettuali: state lontani dai curdi (Asil non lo è ma si batte per i diritti delle minoranze, ndr), o vi tratteremo come loro”. Così la Turchia si è trasformata nella più grande prigione di giornalisti al mondo. Ricordarlo è doveroso.

*L'articolo di Umberto De Giovannangeli è stato pubblicato sull’Huffington Post con il titolo "C'era una volta la Turchia, prigione del giornalismo anti-Erdogan"

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