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Ungp 11 Gen 2011

Ino Iselli confermato presidente dell’Unione Nazionale Giornalisti Pensionati

Il V congresso dell’Ungp, Unione Nazionale Giornalisti Pensionati, che si è svolto a Bergamo 9-10 gennaio 2011 ha confermato alla presidenza il lombardo Giuseppe “Ino” Iselli, che è stato eletto alla prima votazione con 27 voti sui 52 votanti. Il segretario generale aggiunto uscente della Fnsi, Giovanni Rossi, che ha presieduto i lavori del congresso ha ottenuto 23 voti. Vicepresidenti sono stati eletti il piemontese Antonio De Vito con 29 voti e il laziale Guido Bossa con 25.

Il V congresso dell’Ungp, Unione Nazionale Giornalisti Pensionati, che si è svolto a Bergamo 9-10 gennaio 2011 ha confermato alla presidenza il lombardo Giuseppe “Ino” Iselli, che è stato eletto alla prima votazione con 27 voti sui 52 votanti. Il segretario generale aggiunto uscente della Fnsi, Giovanni Rossi, che ha presieduto i lavori del congresso ha ottenuto 23 voti. Vicepresidenti sono stati eletti il piemontese Antonio De Vito con 29 voti e il laziale Guido Bossa con 25.

Successivamente è stato eletto l’esecutivo che risulta cosi composto: Claudio Cojutti Friuli Venezia Giulia (29 voti), Dario De Liberato Marche (29 voti), Mario Talli Toscana (26 voti), Gianfulvio Bruschetti Lombardia (25 voti), Mauro Lando Toscana (25 voti), Paolo Aquaro Puglia (24 voti), Franco Brozzu Sardegna (23 voti), Alfredo Maria Rossi Emilia Romagna (21 voti), Giuliana Sgrena Lazio (20 voti).

Eletto anche il Collegio dei Revisori: Vanni Carisi Veneto (37 voti), Mario Petrina Sicilia (31 voti), Domenico Marcozzi Abruzzo (28 voti), Cristofaro Rino Labate Reggio Calabria (24 voti), Neri Paoloni Lazio (22 voti), Gianluigi Corti Liguria (21 voti) e Roberto Tafani Liguria (20 voti).

LA RELAZIONE DI ISELLI AL CONGRESSO DELL'UNIONE PENSIONATI


Viviamo tempi insicuri. Quello che è appena incominciato è forse uno degli anni più incerti dell’ ultimo decennio, che non passerà alla storia come un periodo di grande tranquillità. Iniziamo un anno, senza sapere come finirà, se si voterà a marzo o si tirerà avanti altri tre anni, se il governo è più forte o più debole di prima, se i massacri finanziari del ministro Tremonti saranno sufficienti o non serviranno a frenare la crisi italiana. Non sappiamo se alla Corte Costituzionale sono stati nominati austeri custodi della legalità, oppure allignano quindici golpisti eversori. Ondeggiamo fra la convinzione che alla Fiat sia stato raggiunto un accordo storico oppure che sia un drammatico ritorno agli anni ’50: Marchionne è l’ “americano a Roma” o il nipotino di Valletta? Non sappiamo neppure per quale precisa ragione debba essere stato il Presidente della Repubblica ad incontrare un gruppo di ragazzi un po’ arrabbiati e non il ministro della Pubblica Istruzione.
Insomma, il dubbio ( temo non cartesiano) ha un’ estensione praticamente universale: meno che sulle pensioni. Anzi, sulla riduzione del sistema previdenziale. Qui le certezze sono assolute. Il 2011 comincia con le “finestre” che allungano (oltre i 65 anni) il raggiungimento del periodo di godimento dell’ assegno di quiescenza. Premessa all’ applicazione delle regole sulle cosiddette “aspettative di vita”: cioè campi di più e per premiarti ti riducono l’assegno. Si continuerà con le dipendenti pubbliche, che arriveranno rapidamente ai 65 anni per smettere il lavoro, quasi sicuramente la prima tappa per giungere allo stesso traguardo anche per tutte le lavoratrici del settore privato.
Insomma, si andrà in pensione sempre più tardi (il traguardo dei settant’ anni è ormai a portata di mano) con sempre meno soldi e con una scarsa copertura dal processo inflativo. La Banca d’Italia rincara la dose e lancia il suo allarme, contenuto in un suo studio e ricavato dai dati offerti dalla Ragioneria dello Stato: la situazione è quella di un taglio drastico del cosiddetto “tasso di sostituzione”, cioè di quanta percentuale dello stipendio andrà a costituire la pensione. Ebbene, dice la Banca d’Italia, è già previsto che un lavoratore del settore privato che nel 2010 sarebbe andato in pensione con il 70 per cento dello stipendio, nel 2040 (a parità di requisiti contributivi) avrà soltanto il 52 per cento. Un taglio drastico dovuto soprattutto alla riforma dei cosiddetti coefficienti di trasformazione, adottata nel 2007, e resa operativa quest’ anno (ma non per i giornalisti) che modifica il meccanismo di calcolo della pensione e ne riduce l’importo. E’ una situazione, commenta lo studio della Banca d’Italia, che comporterà rischi non solo per il singolo pensionato, ma anche per la collettività che “dovrà farsi carico di interventi di natura assistenziale”.
Molti osservatori qualificati, però, hanno la netta convinzione che questi provvedimenti mentre contribuiscono certamente a mantenere in salvo il bilancio previdenziale, quindi a ridurre la spesa pubblica, trascinano con sé un rovescio della medaglia terribile: perché più vecchi si va in pensione, meno giovani entrano e più tardi nel mondo produttivo, più si estende il mondo del precariato. E nessuna moderna e complessa società industriale o postindustriale può salvarsi senza accelerare, anziché frenare il processo di ricambio generazionale, l’unico che può ampliare la base produttiva e quindi la produttività generale.
In altre parole, il sistema pubblico italiano, la finanza pubblica, reagiscono alla crisi internazionale difendendosi con atti in un certo senso di disperazione, che sottolineano, se ce ne fosse ancora bisogno, la gravità della situazione: riprendersi risorse dai vecchi, cioè da chi è arrivato alla fine della vita produttiva, senza offrirle ai giovani, che si vedono tagliati gli investimenti scolastici e ridotte le prospettive occupazionali, fare tutto ciò oltre un certo livello di compatibilità e di programmazione, può comportare conseguenze drammatiche. Anche perché (non solo in Italia) i vecchi improduttivi aumentano e i giovani che lavorano diminuiscono.
Nel complesso dei 27 Paesi che fanno parte dell’Unione europea esistono attualmente quatto persone in età lavorativa per ogni ultra sessantacinquenne. Una stima Eurostat rileva che i trend demografici e migratori faranno variare tale rapporto, fino a raggiungere, nel 2060, un valore dimezzato: due persone in età lavorativa ogni over 65. Più in dettaglio, Eurostat prevede che gli ultra sessantacinquenni passeranno dall’attuale 17,1 per cento della popolazione al 30 per cento nel 2060, mentre la percentuale degli ultraottantenni toccherà la quota del 12,1 per cento, contro il 4,4 per cento del 2008. Poiché la popolazione prevista in Europa per quell’anno sarà di 506 milioni (compresi gli immigrati) vuol dire che fra cinquant’ anni avremo in circolazione 61 milioni di aspiranti Matusalemme e che 300 milioni di gente che lavora dovrà mantenere, oltre ai propri figli (se li avrà) anche 150 milioni di collocati a riposo, con tutti i costi ed i problemi che ciò comporta.
L’ impressione è che di fronte a questi fenomeni macroscopici, la politica europea non riesca a vedere oltre il proprio naso: fate più figli e andate in pensione più tardi, dicono. Insomma, navigare a vista sperare in Dio e, in attesa del miracolo, segare la spesa previdenziale.
In casa nostra, cioè nel mondo del giornalismo, la situazione previdenziale (soggetta a molti dei provvedimenti determinati dal governo per la previdenza pubblica) non è scevra di problemi, per fortuna non ancora drammatici, ma ha bisogno di interventi decisivi, abbastanza rapidi e, purtroppo, non tutti indolori.
Il bilancio attuariale dell’INPGI reso noto in autunno ed approvato dal Cda prevede la massima espansione della “gobba”, cioè un buco finanziario insostenibile, per il 2040, per evitare il quale, o meglio per evitare il commissariamento dell’ente in mancanza dell’adozione dei provvedimenti necessari ad impedirlo, entro la metà del 2011 dovranno essere adottate dal Cda decisioni operative per aumentare le entrate e ridurre le prestazioni. Le ipotesi principali su cui si lavora sono due: crescita di tre punti dei contributi versati dagli editori ed aumento a 65 anni dell’età pensionabile delle giornaliste. Il tutto con le gradualità che saranno ritenute più confacenti al raggiungimento dell’obiettivo. Naturalmente i due provvedimenti non sono né paritetici né paragonabili, perché le colleghe saranno, comunque, penalizzate, mentre gli editori continueranno nel vantaggio, sia pure ridotto, di versare meno contributi (almeno tre punti) di quanto versano all’INPS tutti gli altri imprenditori e di quanto versano gli stessi editori per i loro dipendenti non giornalisti. Ma questo “punto di equilibrio”, chiamiamolo così, è voluto, oltre che dagli editori, anche dalla stessa FNSI, i cui dirigenti temono un risultato negativo dal prossimo contratto economico qualora gli editori dovessero versare per intero all’INPGI quanto spetta loro. Si può quindi ragionevolmente sostenere che le colleghe pensionate prossime venture sono, in una certa misura vittime di una coincidenza di interesse delle cosiddette parti sociali. Su tutto ciò, sono sicuro, si soffermerà con molta più autorevolezza di me il presidente Camporese nel suo intervento quando verrà a trovarci. Di mio posso solo aggiungere un convincimento personale: quello di non volermi annoverare fra coloro che, dopo aver tirato un po’ di molotov (o più semplicemente di sassi) quando erano giovani, adesso si sono ritirati nelle schiere di quanti sostengono che “tutta la colpa è del ‘68”, magari senza neppure averlo vissuto. Sono come quelli che, magari solo per difendere la loro pancia piena davanti all’ ira di qualche affamato sostenevano che la “colpa è tutta di Voltaire”. Io credo che certe decisioni, come lo Statuto dei diritti dei lavoratori o le riforme delle pensione, adottate 30 o 40 anni fa sono state sacrosante: semmai è chi è venuto dopo e c’è ancora oggi che non ha saputo , o non ha voluto, compiere le azioni di risanamento della finanza pubblica, facendo pagare il dovuto a tutti e non solo ai lavoratori a reddito fisso.
In attesa (chi lo sa mai!) di ripensamenti operosi che, nei prossimi decenni, magari favoriti da risanamenti della finanza pubblica e dall’adozione di sistemi di tassazione più confacenti a Paesi di alta modernità, possano invertire la tendenza punitiva verso i pensionati, noi giornalisti abbiamo di che essere soddisfatti di quanto stiamo realizzando: la creazione e la gestione del Fondo di perequazione delle pensioni contenuto nell’ ultimo contratto. Il vero valore aggiunto di un accordo sostanzialmente difensivo, che ha un preciso significato positivo, quello di essere stato firmato a più di quattro anni dalla scadenza naturale da un sindacato che ha dimostrato, nel tempo, di soffrire di qualche deficit di ossigenazione.
Dobbiamo, tuttavia, dirci con sincerità alcune cose precise, cercando di non abbandonarci fra noi a pericolosi equivoci. Questo Fondo è stato voluto con tenace determinazione dall’Unione pensionati: è entrato nella piattaforma contrattuale soprattutto perché abbiamo rotto le scatole alla FNSI, è stato recepito nell’accordo con gli editori anche, ma forse dovrei dire soprattutto, perché negli anni di vacanza contrattuale non abbiamo mollato un millimetro sulla sua necessità e poi, perché un solo dirigente della FNSI, ripeto, uno solo, ci ha creduto e l’ha difeso di fronte agli editori, quando molti altri “ragazzi” della Giunta federale lo avrebbero tranquillamente mollato di fronte a qualche altro beneficio da parte degli editori: costui è il segretario Siddi. Solo lui e, ripeto, nessun altro.
Ora, siccome le sconfitte sono orfane e le vittorie hanno più padri dei funghi che si trovano in Val Taro, adesso ci sono parecchi “maestri” di sindacalismo che, dopo aver scoperto che il Fondo è un bel giocattolino (a un anno dalla sua entrata in funzione ha accumulato più di 800 mila euro) si fanno avanti, si vantano di conquiste che non sono da ascrivere a loro merito e, comunque, ci spiegano quello che dobbiamo fare, come, dove e quando. Io dico solo questo: il Fondo è un istituto che vale per tutti i pensionati, quelli di oggi e, soprattutto, quelli del futuro. E’ dei pensionati e di nessun altro: deve essere gestito, in termini di equità e di saggezza dalla FNSI e dall’INPGI, come previsto dalla norma contrattuale, con la partecipazione attiva dell’ UNGP (così ci è stato garantito dal segretario Siddi). Per questo non deve prevedere né forzature, né prevalenze e neppure forme che assomigliano a dictat gestionali. La sua istituzione, su iniziativa e richiesta dell’INPGI, è stata approvata dal Ministero del Lavoro (uno dei Ministeri vigilanti sull’Istituto) e quindi il Fondo ha assunto una valenza che supera la mera norma contrattuale.
Non ha ancora, a un anno dalla sua attivazione, un regolamento di gestione: la responsabilità del ritardo è da ascrivere esclusivamente alla Giunta della FNSI. Al testo del regolamento hanno fattivamente contribuito, in fase di correzione e miglioramento funzionale della stesura iniziale ad opera degli uffici dell’INPGI, l’ ignobile presidente che vi parla, insieme al vice presidente Antonio De Vito e, in larga misura, al collega Francesco Brozzu. Tuttavia, il testo approvato dalla Giunta della FNSI non corrisponde completamente alla necessità di gestione equilibrata e saggia di cui abbiamo parlato prima e necessita a mio avviso, ma non solo mio, di alcuni cambiamenti, senza i quali diventerà molto difficile un tranquillo passaggio ratificatorio da parte dell’INPGI.
Al di là del Fondo di perequazione e più in generale sul rapporto fra FNSI e Unione pensionati, mi sento di dover ribadire alcuni concetti elementari che dovrebbero essere arcinoti, ma che spesso vengono dimenticati. Noi rispettiamo, abbiamo sempre rispettato la Federazione, spesso senza ricevere altrettanto rispetto. Noi siamo dentro la FNSI, ma siamo autonomi da essa perché è lo statuto del sindacato che lo prevede: anzi, potremmo dire che ci obbliga ad esserlo, come sono autonome le Associazioni o l’ Usigrai. Abbiamo cercato di vivere con dignità in questo binomio unità-autonomia, rivendicando sempre il nostro ruolo istituzionale di prioritaria difesa dell’interesse dei pensionati (altrimenti che ci staremmo a fare?) senza ledere alcun altro interesse legittimo: lo abbiamo fatto talvolta con dolcezza, spesso con durezza perché ci siamo scontrati con ottusità e prepotenze inaccettabili. Abbiamo cercato sempre di non dare spazio a correnti, consorzi, conventicole, coordinamenti (tutti organismi statutariamente inesistenti) rifiutando di essere telecomandati da piccoli boss sindacali. Mi accorgo, tuttavia, che alcuni non l’hanno ancora compreso.
Abbiamo sempre giudicato in autonomia, ed espresso liberamente i nostri giudizi, sulle scelte della FNSI e sui risultati delle sue azioni sindacali. Abbiamo giudicato positivamente e globalmente il contratto, pur con tutti i limiti che ha rivelato: lo abbiamo detto ed abbiamo invitato i pensionati ad approvarlo nel referendum. I pochi che sono andati a votare ci hanno confortato perché il sì è stato molto elevato. Abbiamo giudicato molto positivamente l’azione svolta dalla FNSI (in particolare l’impegno del presidente Natale e del segretario Siddi) per affossare la “legge bavaglio”, la capacità che ha dimostrato il sindacato di tessere le alleanze politiche e sociali che sono state in grado di raggiungere uno straordinario successo.
Per questo nostro sforzo di giudicare senza pregiudizio, abbiamo il diritto di pretendere che vengano ascoltate anche lo nostre critiche e comprese le nostre decisioni che spesso hanno contrastato logiche di corrente e di consorteria. Mi riferisco in particolare alle scelte per le elezioni degli organismi dirigenti dell’ INPGI e della Casagit che hanno portato a risultati non proprio confacenti alle previsioni (sia di scontro che di spartizione) della vigilia. Il risultato oggi è che, sia all’INPGI che alla Casagit (per qual che può essere utile ai pensionati) la presenza ed il peso dell’Unione è maggiore e più autorevole.
Quel che mi sento di aggiungere, infine, alla FNSI (anzi dovrei dire alle FNSI, perché mai come ora questo nostro sindacato mi appare frantumato e diviso) è di stare molto attenti a non considerare esaurita la propria azione nella doverosa difesa del lavoro precario e di chi ne è vittima.
Come ha ben detto il Presidente della Repubblica pochi giorni fa, ai giovani non vanno date “certezze”, perché nessuno di noi è in grado di farlo, ma “possibilità”: a loro non serve demagogico assistenzialismo ma prospettive reali e realizzabili. Credo, quindi, che nostro compito non sia quello del paternalismo o degli insulsi documenti che tutti il giorno dopo dimenticano. Credo invece che debba essere compiuto un grande sforzo, che la FNSI compia un grande sforzo per invertire la rotta, per sfidare gli editori sulla qualità e la libertà dell’ informazione che possono essere garantite soprattutto da una maggiore stabilità del lavoro, premessa indispensabile di una crescita culturale e professionale dei più giovani colleghi della quale si sente oggi l’estrema necessità. Spesso, purtroppo, dobbiamo constatare che ad una scarsa remunerazione del lavoro giornalistico, ad un’ insufficiente o inesistente sbocco professionale, corrisponde un troppo basso livello del prodotto finale. E’ una sfida, cari amici dirigenti della FNSI: anzi è “la sfida” dei prossimi anni. E la vostra capacità, anzi la capacità di sopravvivenza del nostro sindacato, si misurerà sui risultati di questa sfida. Tutto il resto sono chiacchiere di chi sa solo navigare sotto costa ed ha paura di qualche ondina.
Un altro tema sul quale scarsa, per non dire inesistente, è l’attenzione del sindacato (non solo dei giornalisti) è quello dell’ imposizione fiscale sul lavoro dipendente e sulle pensioni. Ha scritto recentemente Pierre Carniti sulla rivista di critica sociale “Eguaglianza e libertà”: “Il punto è che l’ Irpef da imposta sul reddito delle persone fisiche, si è di fatto tramutata in imposta specifica su salari e pensioni. Qualche dato può servire a rinfrescare la memoria dei più distratti. L’incremento del prelievo fiscale su salari e stipendi negli ultimi due decenni è stato impressionante. Sale infatti dal 40 ad oltre il 60 per cento delle entrate totali Irpef. Mentre per i redditi non da lavoro dipendente si riduce dal 37 a meno del 10 per cento. Questo è successo mentre la quota del lavoro dipendente sul totale del Pil è diminuita, passando dal 66 al 53 per cento. In altre parole, significa che, mentre i redditi da lavoro calavano costantemente come quota del reddito nazionale, il prelievo su di loro è continuamente aumentato. In compenso gli altri redditi, sebbene in costante crescita, hanno pagato sempre di meno. Del resto – continua Carniti – i dati tributari parlano da soli. Lo scorso anno le entrate Irpef sono state pari a 146 miliardi di euro, comprese le addizionali comunali e regionali. Di questi miliardi i lavoratori dipendenti ne hanno pagati 88,5, i pensionati 44,5. Per differenza si deduce che tutti gli altri (imprenditori grandi e piccoli, professionisti, commercianti ed autonomi) hanno pagato solo 13 miliardi. Ne consegue che l’Irpef è pagata per il 60,6 per cento dai lavoratori dipendenti , per il 30,4 per cento dai pensionati e solo per il 9 per cento da tutti gli altri.”
Ora io non mi soffermo sulle ricette per guarire questa malattia tutta italiana che ne fa uno dei tanti suoi primati negativi: si conoscono ma non si vogliono prescrivere, anzi si inventano simpatiche trovate come il “federalismo fiscale” che serve solo per ridurre le imposte a tutti coloro che nel Nord già ne pagano poche per trasferirle a chi sta nel Sud, magari con una bella spalmatine sulle spalle di quegli operai della Fiat che per tirare la carretta dovranno lavorare come negri. Quello che sorprende è la sostanziale indifferenza sindacale, insieme ad una certa imbarazzata acquiescenza dei partiti della cosiddetta “sinistra” (almeno una volta si chiamava così).
Perché la FNSI non se ne fa carico? Quando vuole riesce a collocarsi al centro dell’attenzione politica. Perché non entra nel fumoso e stanco dibattito attorno ai destini della maggioranza di governo ed a quello personale di Silvio Berlusconi per non dire la verità sul prezzo che tutti dovremo pagare alla Lega per non andare subito alle elezioni, cioè l’avvio di un colossale e scandaloso trasferimento di massicce risorse al Nord e di tassazioni a Sud? Non crea preoccupazione questo ulteriore pesante colpo allo sfasciamento del Paese? Siamo fermi alla libertà di stampa: tutto il resto non ci interessa? E la controparte sociale, siamo sicuri che non sia coinvolgibile in un serio discorso che misuri forze politiche e acquisizione del consenso sociale per trasferire alle forme parassitarie della rendita il livello di tassazione esistente in Europa, a vantaggio del lavoro e del profitto? Mi piacerebbe conoscere la risposta, prima di dover leggere il prossimo, sconfortante articolo di Carniti: uno che, comunque, quando lo faceva, il leader sindacale lo sapeva fare. Ma quelli, al contrario di oggi, erano tempi in cui unità e autonomia dei sindacati dai partiti e dai poteri economici erano valori ampiamente condivisi e spesi all’unico scopo di difendere l’interesse dei lavoratori: non di questo o di quello, ma “dei lavoratori tutti”.
Poche parole voglio dedicare alla Casagit: l’Unione ha dato un contributo (e non da poco) al cambiamento del suo gruppo dirigente. Non me ne pento, anche se ciò, come al solito, ha comportato parecchi mal di pancia e l’ accusa personale, pensate un po’, di non aver rispettate le logiche di corrente. Ho staccato il telecomando e ne sono estremamente felice. Ora l’ ente ha risanato i bilanci ed ha cominciato a camminare con molta più sicurezza. Anche di questo sono molto felice, così come sono sicuro che il presidente Cerrato ed i suoi consiglieri si ricorderanno che i più affezionati e fedeli fruitori della Casagit sono gli anziani come noi e che i loro bisogni possono essere soddisfatti con intelligenza andando al cuore dei problemi, senza disperdere l’assistenza sanitaria in mille rivoli, spesso costosi e infruttuosi.
Per quanto riguarda l’Ordine ho smesso da tempo, purtroppo, di sognare l’Ordine che vorrei. Mi accontenterei, anch’ io delle riforme realisticamente possibili, anche se il tempo che passa inutilmente rischia di trasformarlo in un carrozzone ingestibile. Voglio solo notare che le recenti elezioni del vertice nazionale hanno, anche qui, visto il clamoroso fallimento degli “ordini di scuderia” a favore di soluzioni che alla vigilia sarebbero apparse assolutamente imprevedibili e che, a mio avviso, rendono invece del tutto interessante l’ attenzione sulla sua attività e sul suo futuro.
Vorrei solo esprimere il mio apprezzamento per il gesto, giuridicamente e simbolicamente, più importante realizzato nel corso del mandato appena iniziato che è la conferma del provvedimento di primo grado nei confronti del direttore del Giornale, Vittorio Feltri, sia pure con una riduzione di “pena”. E vorrei, inoltre, esprimere tutto il mio sconcerto di fronte a reazioni di critica, a cavallo tra i farisei e le tricoteuses davanti alla ghigliottina, per la diminuzione della sanzione. Il valore di questa pronuncia non si misura sulla quantità, ma sul fatto che la condivisione della censura è stata praticamente unanime. Ed anche questo non era assolutamente scontato.
E veniamo ora alla nostra Unione, al suo futuro, ai suoi obiettivi, al suo rinnovamento. Io sono convinto che, sia pure con difficoltà e tempi di lunghezza incalcolabile, nel corso del mandato che si conclude oggi l’ UNGP sia riuscita a far compiere passi avanti molto importanti su questioni che toccano l’interesse dei giornalisti pensionati. Del Fondo di perequazione delle pensioni ho già ampiamente parlato. Resta da dire qualcosa sul cumulo fra pensione ed altri redditi da lavoro e sulla quota d’iscrizione al sindacato da riservare all’ Unione.
La quota di pensione esente dalle norme sul cumulo, grazie anche al lavoro compiuto dall’ UNGP, è stata elevata dall’INPGI lo scorso anno ed è passata da circa 8 mila ad oltre 20 mila euro. E’ un bel passo avanti ma non ancora sufficiente. Io credo che, nel 2011, o comunque entro la fine del mandato del Consiglio di amministrazione dell’INPGI tale cumulo vada completamente abolito. E’ un impegno che si siamo proposti quando è stato rinnovato il vertice del nostro istituto previdenziale, che ha ottenuto, in sede di votazioni, un vastissimo consenso fra i pensionati. E’ una norma antiquata (esistente solo ed esclusivamente per il nostro ente) che, ipocritamente, viene venduta come un provvedimento che, frenando il ricorso al lavoro dei pensionati, stimola, invece, l’aumento dell’occupazione giovanile.
Se si pon mente a quanto è avvenuto negli ultimi due anni ci si accorge che questa argomentazione non regge. La crisi editoriale nel biennio trascorso ha causato centinaia di espulsioni definitive per prepensionamento ed altre (in attesa di diventare definitive) per cassa integrazione. Chi è uscito (o sta uscendo dal mondo del lavoro) non è stato sostituito se non in misura trascurabile Le norme sul cumulo sono state indifferenti a questo drammatico processo che ha ubbidito a logiche strutturali dell’editoria e che non poteva essere minimamente controllato da regole che, al massimo, esprimono buone o lodevoli intenzioni. Nemmeno il cumulo può essere considerato un fabbricatore di risparmio per l’INPGI, il quale, come sappiamo, ha bisogno di ben altro che delle briciole per durare nel tempo.
Qual è allora la ragione per mantenere il cumulo, fra l’altro ampiamente eluso da accordi aziendali stilati spesso con il consenso esplicito delle Associazioni regionali, e che, quasi sempre, si riduce a punire quegli sfigati a cui può non bastare la pensione e che non possono evitare di nascondere altri redditi? Nessuno lo sa dire, se non mascherandosi ancora dietro la frase fatta dello “spazio ai giovani”, spazio oggi purtroppo quasi inesistente. Per quanto riguarda l’accusa di utilizzo improprio del pensionato in mansioni che dovrebbero essere riservate solo a lavoratori dipendenti (mettiamo il caso del redattore capo che va in quiescenza e continua a dirigere la redazione, il che, però è sindacalmente sgradevole ma non illegittimo) io credo che il problema potrebbe essere superato attraverso accordi sindacali in cui la parte editoriale si impegna al corretto utilizzo del giornalista pensionato che non leda interessi ed aspettative altrui, ma senza generalizzazioni demagogiche e inconcludenti. Invito la FNSI a prendere in considerazione queste proposte, che se realizzate potrebbero anche essere sottoposte al controllo ispettivo dell’ INPGI. E insieme la invito a non frapporre più alcun ostacolo all’abolizione del cumulo. La invito e l’attendo a questa prova di saggezza e responsabilità. Infine, la quota d’iscrizione al sindacato di spettanza all’ Unione ed il completamento del processo di autonomia finanziaria dell’UNGP . Non è un pallino maniacale, ma un preciso diritto/dovere, esistente da 12 anni, contenuto nello statuto dell’Unione reso valido dall’ approvazione del Consiglio nazionale della FNSI. Ma quando parli di queste cose, trovi sempre qualche furbetto (sordo od ottuso è la stessa cosa) che cerca di parlar d’altro (credo che la FNSI abbia instaurato una scuola speciale in elusione mentale) che ti dice di non fare sterili polemiche.
Per farla in breve, esistono oggi intese variegate fra l’UNGP e cinque Associazioni, che prevedono percentuali differenti della quota d’iscrizione dei pensionati, trattenute direttamente dall’INPGI e girate all’Unione. Altre Associazioni tacciono, altre dicono, appunto, di non fare polemiche. Esiste una situazione particolare in Lombardia, in cui è stata prevista la temporanea possibilità della doppia iscrizione: cioè, il pensionato che vuole essere iscritto a FNSI, Associazione e Unione versa lo 0,30% della pensione. Chi non è interessato all’Unione versa solo lo 0,15%. E’ una situazione in via di superamento: c’è un impegno in questo senso del vertice lombardo e l’accettazione pubblicamente espressa da Ciccio Abruzzo, il più feroce oppositore sia all’ unificazione della quota per i pensionati e, soprattutto, al finanziamento dell’Unione, al tempo in cui era potente (e prepotente) presidente dell’ Ordine. Questa evoluzione (io preferisco chiamarlo pentimento) di Ciccio mi fa particolarmente piacere, perché io non mi sono mosso di un centimetro, è lui che è arrivato alle nostre posizioni.
Per il resto, cioè per quanto riguarda l’area associativa che non ha ancora inteso adeguarsi alla norma vincolante, io ritengo che il processo debba compiersi entro il 2011. Abbiamo, in questo senso un preciso impegno del segretario Siddi (che, mi pare, al momento è l’unico rappresentante legale della FNSI) inteso al convincimento anche dei più riottosi. Credo che al prossimo Esecutivo che uscirà da questo congresso debba essere dato un completo e preciso mandato in questo senso, comprensivo del diritto di avvalersi di tutti gli strumenti lecitamente consentiti dalle norme democratiche vigenti.
Io ho finito. Con questa relazione termino il mio mandato che, con molta comprensione ma anche, permettetemelo, con qualche intelligenza, mi avete affidato. Auguro a tutti un buon congresso. Al prossimo congresso della FNSI, che comincerà appena finiremo noi, auguro altrettanto buon lavoro, con l’auspicio che sappia individuare al meglio il terreno su cui impegnarsi nel prossimo mandato e che sappia trovare, nella formazione del gruppo dirigente, quelle professionalità e quelle personalità che siano in grado di gestire il sindacato con intelligenza, preparazione e spirito di comprensione, evitando quegli errori di rozzezza, di presunzione e di cecità che troppo spesso aleggiano nel nostro mondo.

@fnsisocial

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