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Parlamento 22 Dic 2010

Riproponiamo l'analisi dell'ufficio legale della Fnsi sul "Collegato lavoro" La data ultima per l'impugnazione è il 23 gennaio 2011

Il 9 novembre è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il cosidetto collegato lavoro. Il testo è stato approvato dalla Camera in via definitiva il 19 ottobre 2010, dopo il rinvio alla camere del Presidente della Repubblica che nel primo testo aveva riscontrato profili di incostituzionalità di alcune norme. La legge, 50 articoli, oltre 100 commi, contiene norme particolarmente importanti nell'ambito del diritto del lavoro, norme che riguardano la certificazione dei contratti, l'arbitrato, l'impugnazione dei licenziamenti e anche dei contratti a termine (anche di cococo). A questo proposito si segnala un temine molto stretto, 60 giorni per l'impugnazione e 270 per il deposito del ricorso. Pubblichiamo un'analisti del testo che l'avvocato Bruno Del Vecchio ha predisposto per la Fnsi, preceduta da una guida breve per una consultazione immediata.

Il 9 novembre è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il cosidetto collegato lavoro. Il testo è stato approvato dalla Camera in via definitiva il 19 ottobre 2010, dopo il rinvio alla camere del Presidente della Repubblica che nel primo testo aveva riscontrato profili di incostituzionalità di alcune norme. La legge, 50 articoli, oltre 100 commi, contiene norme particolarmente importanti nell'ambito del diritto del lavoro, norme che riguardano la certificazione dei contratti, l'arbitrato, l'impugnazione dei licenziamenti e anche dei contratti a termine (anche di cococo). A questo proposito si segnala un temine molto stretto, 60 giorni per l'impugnazione e 270 per il deposito del ricorso. Pubblichiamo un'analisti del testo che l'avvocato Bruno Del Vecchio ha predisposto per la Fnsi, preceduta da una guida breve per una consultazione immediata.

Oggetto: “Collegato lavoro” (legge 4/11/2010, n. 183). Scadenze. Guida breve

 

Dopo l’approvazione definitiva del Parlamento, è stata pubblicata sul supplemento n. 243 della “Gazzetta Ufficiale” del 9 novembre la legge 4 novembre 2010 n. 183, altrimenti nota come “collegato lavoro”. La legge entra in vigore dal 24 novembre. In essa sono contenute innovazioni normative di grande rilievo anche per i rapporti di lavoro giornalistico e sulle quali vogliamo richiamare l’attenzione di tutte le strutture sindacali.

Prima ancora di illustrare in sintesi gli aspetti più delicati (e anche preoccupanti) della nuova legge, un AVVISO: per eventuali contenziosi su contratti a termine e contratti di co.co.co. scaduti prima dell’entrata in vigore delle nuove norme, le impugnative devono essere presentate entro 60 giorni, cioè entro il 23 gennaio 2011!

Le norme di legge che possono specificamente riguardarci sono quelle relative:

 

1)                 All’art. 30 (clausole generali e certificazioni del contratto di lavoro) il quale  prevede che in caso di vertenza giudiziaria relativa ad un rapporto di lavoro certificato, sia per quanto riguarda la qualificazione del contratto, sia l’interpretazione delle singole clausole, il Giudice non può discostarsi dalle valutazioni che le parti hanno espresso. Infatti, si prevede esplicitamente che “il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive” che sono di esclusiva competenza del datore di lavoro. Questo principio, già codificato dalla giurisprudenza di Cassazione, è esteso, con la nuova norma di legge, a tutte le vicende attinenti il rapporto di lavoro. Ovviamente, la normativa riguarda i rapporti di lavoro certificati, che, come è noto, sono quelli introdotti dalla “legge Biagi”, che sino ad oggi, tuttavia, hanno avuto una scarsissima diffusione. A quello che ci risulta, non esistono nel nostro comparto contratti di lavoro certificati. Di norma, i contratti di lavoro individuali dei giornalisti si richiamano al contratto nazionale di lavoro senza che venga richiesta la sua certificazione con clausole aggiuntive.

 

2)                 All’art. 31 (conciliazione ed arbitrato) che modifica l’art. 410 del codice di procedura civile, il quale prevedeva che prima di attivare un procedimento giudiziario inerente il rapporto di lavoro, era obbligatorio un tentativo di conciliazione. Da oggi, invece, il tentativo di conciliazione diventa facoltativo ed è, quindi, possibile rivolgersi immediatamente all’autorità giudiziaria. La nuova norma non prevede più l’ipotesi di  procedure di conciliazione definite nei contratti collettivi. L’eventuale conciliazione potrà essere richiesta, tramite l’organizzazione sindacale di appartenenza, alle commissioni di conciliazione costituite presso la direzione provinciale del lavoro. Il tentativo di conciliazione, prima di adire le vie legali, rimane obbligatorio per i contratti di lavoro certificati.

 

3)                 All’art. 32 (decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato), che modifica l’art. 6 della legge n. 604/1966 e prevede che il licenziamento (anche nei casi di sua invalidità) deve essere impugnato in forma scritta a pena di decadenza entro 60 giorni dal ricevimento della sua comunicazione. Il lavoratore può impugnare il licenziamento con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, purché sia idoneo a manifestare la sua volontà e anche tramite l’intervento dell’organizzazione sindacale di appartenenza. Entro 270 giorni dal momento dell’impugnazione, a pena di decadenza, il lavoratore licenziato deve depositare nella cancelleria del Tribunale competente, in funzione di giudice del lavoro, il relativo ricorso, ovvero, può richiedere, anche tramite l’organizzazione sindacale di appartenenza, un tentativo di conciliazione o arbitrato. In questo caso, la richiesta può essere fatta alla commissione di conciliazione costituita presso la direzione provinciale del lavoro.

Gli stessi termini e le stesse modalità si applicano: 1) ai licenziamenti che riguardano la qualificazione del rapporto di lavoro o la legittimità del termine apposto al contratto, 2) quando il datore di lavoro ponga fine a un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, 3) nei casi di trasferimento.

Questa nuova disposizione normativa assume particolare rilievo per la sua estensione ai contratti a termine, ai contratti di collaborazione coordinati e continuativi e alle varie forme di precariato. Come è evidente, infatti, può capitare che un giornalista cumuli nel tempo diverse forme precarie contrattuali o contratti a termine con lo stesso editore. Nel regime precedente gli era consentito agire in sede giudiziaria per il riconoscimento dei propri diritti al termine dell’intero rapporto. Oggi, invece, con la nuova normativa, il termine di prescrizione di 60 giorni si riferisce ad ogni singolo contratto a termine o contratto di collaborazione coordinata e continuativa.

Peraltro, tale nuova disposizione si applica anche ai contratti a termine in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della nuova normativa, nonché ai contratti a termine che si siano conclusi in data antecedente. Per questi ultimi i lavoratori interessati possono procedere all’impugnativa entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge. Quindi, entro il 23 gennaio prossimo.

 

4)                 All’art. 32 comma 5, il quale prevede che nei casi di conversione del contratto a tempo determinato il Giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità unicomprensiva, nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e di un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Dalla lettura della norma non è assolutamente chiaro se il lavoratore che ha impugnato la risoluzione di un contratto di lavoro a termine ed ha ottenuto dal Giudice il riconoscimento della illegittimità della risoluzione del rapporto debba essere reintegrato o se debba essere soltanto risarcito. La norma non è chiara. Noi, ovviamente, sosteniamo, cosi come ha chiesto un ordine del giorno del Senato, che il risarcimento deve essere accompagnato sempre dal reintegro. 

 

5)                 All’art. 32 comma 6, il quale stabilisce che quando i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali prevedono l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori già occupati con contratto a termine, in caso di procedimento giudiziario che dovesse riconoscere l’illegittimità del contratto a termine, l’indennità risarcitoria di cui al comma precedente è ridotta del 50%.

Anche in questo caso si pone la questione interpretativa posta per il comma 5, ovvero, se il risarcimento debba intendersi come sostitutivo della reintegrazione nel posto di lavoro.

 

In attesa che siano chiariti i dubbi interpretativi sulle norme sopra richiamate e mentre si invitano tutte le strutture sindacali a vigilare con la massima attenzione, segnalando ai colleghi interessati i termini di decadenza entro i quali rivendicare i propri diritti, si ricorda che sul sito della Fnsi (www.fnsi.it) è consultabile un approfondimento sull’intera normativa redatto dall’Avvocato Bruno Del Vecchio.

Cordiali saluti.

 

 

 

Franco Siddi

 

 

Il 19 ottobre 2010 la Camera dei Deputati ha definitivamente approvato il testo, comunemente definito “collegato lavoro”, avente ad oggetto alcune norme particolarmente importanti nell’ambito del diritto del lavoro.

 

            Nel mentre si predispone la presente nota, il provvedimento, che ha raggiunto una sua definizione dopo un lungo iter, non è ancora stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

 

E’ stata richiesta, da codesta Federazione Nazionale, una prima valutazione in ordine ai relativi contenuti di maggior rilievo.

 

* * *

 

            Come si ricorderà, nel marzo scorso, il Presidente della Repubblica chiese alle Camere una nuova deliberazione su un analogo testo all’epoca inviatogli Parlamento, motivando la decisione attraverso un Messaggio dove venivano messi in evidenza, tra l’altro, i profili di incostituzionalità della normativa.

 

            Il provvedimento odierno reca quindi alcuni cambiamenti, anche se l’impianto complessivo è rimasto molto simile rispetto alla precedente versione.

 

Vi sono 50 articoli, con oltre cento commi riferiti alle materie più disparate.

 

In questa prima analisi, si soffermerà l’attenzione su alcuni istituti che, come si vedrà, incideranno profondamente sulla disciplina del contratto individuale di lavoro e sul ruolo della contrattazione collettiva.

 

            Per maggiore chiarezza, verrà seguito il seguente ordine espositivo:

- clausole generali

            - certificazione dei contratti di lavoro

- conciliazione ed arbitrato

- regime delle decadenze (licenziamento, contratti a termine e contratti “precari” in genere).

 

            La clausole generali.

 

            Ai sensi dell’art. 30, comma 1, del provvedimento, “in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’art. 409 del codice di procedura civile e all’art. 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengono clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo del giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.”

 

La norma, prevalentemente di indirizzo e che trova applicazione sia nel lavoro privato che in quello pubblico, codifica ciò che nella consolidata giurisprudenza si afferma ormai da anni, soprattutto in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e trasferimento (si veda, ad esempio, la sentenza n. 6559 del 18 marzo 2010 della Suprema Corte di Cassazione secondo la quale “il giustificato motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni tecniche, organizzative produttive è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. Pertanto, spetta al giudice il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, e l'onere probatorio grava per intero sul datore di lavoro, che deve dare prova anche dell'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, onere che può essere assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria, mentre il lavoratore ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di reimpiego.”)

           

Il potere del giudice non può quindi estendersi fino al punto di entrare nel merito delle scelte aziendali, ma deve limitarsi ad una verifica di legittimità, cioè ad una verifica dell’effettiva compatibilità  tra le predette scelte e la normativa legale e contrattuale. Ad esempio, se un imprenditore intende sopprimere un posto di lavoro (e conseguentemente irrogare il licenziamento), il giudice non potrà sindacare la sua scelta (l’iniziativa economica privata è libera, come ricorda la sentenza citata), ma dovrà solo verificare, oltre al rispetto delle forme, se la soppressione vi è stata realmente e cioè se la medesima non “nasconde” altri intenti, ad esempio discriminatori o punitivi.

 

            Una norma, quale quella del comma 1 dell’art. 30, non introduce quindi nuovi principi, ma estende i medesimi a tutte le vicende attinenti ai rapporti di lavoro. La disposizione, per come è formulata, si presta infatti ad una applicazione generalizzata, ma vi sono delle materie, come quella disciplinare, dove potrebbero invero nascere problemi.

 

            Se un datore di lavoro sanziona un dipendente (lo licenzia per giusta causa o gli infligge alcuni giorni di sospensione o una multa) e quest’ultimo si rivolge al giudice per l’annullamento della sanzione deducendo l’insussistenza dei fatti contestati, il giudice è comunque chiamato verificare, oltre al rispetto delle forme (ad esempio, la corretta applicazione della procedura disciplinare prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori) se tali fatti sussistono o meno: quindi entra – e non può fare altrimenti – nel concreto merito della scelta imprenditoriale.

 

            Personalmente non credo che tale principio possa essere modificato dalla nuova normativa. La ragione di legittimità della sanzione è proprio la sussistenza del fatto contestato e per questo motivo il giudice  non può prescindere da una attenta verifica di merito. Peraltro, è la stessa nuova disciplina a far salvi in ogni caso “i principi generali dell’ordinamento” (Costituzione, normativa comunitaria, complesso delle leggi) che non consentono in alcun modo la punizione di una persona senza il concreto riscontro degli addebiti.

 

            La certificazione del contratto di lavoro

 

            L’istituto della certificazione, introdotto per la prima volta dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. Riforma Biagi) ha avuto, come noto, scarsissima diffusione alla luce dei vincoli posti dalla legge che hanno reso, fino ad ora, poco conveniente per le imprese ricorrere ad esso. Infatti, attraverso la procedura di certificazione, le parti potevano unicamente consolidare la qualificazione del contratto (ad esempio, una collaborazione coordinata e continuativa), ma la legge dava la possibilità al prestatore di lavoro di ricorrere al giudice per una molteplicità di ragioni rendendo, appunto, l’istituto poco conveniente per l’impresa.

 

            Oggi, il provvedimento in esame (art. 30, comma 2 e seguenti) tende a dare nuovo impulso alla certificazione del contratto.

 

            Il citato comma 2 così dispone: “Nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni, salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione”.

 

            Ed il seguente comma 3: “Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui  titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni. Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, il giudice tiene ugualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento.”

 

            Le modificazioni introdotte sono quindi di assoluta rilevanza in quanto le funzioni dell’istituto vengono notevolmente ampliate. Oltre alla qualificazione dei contratti le commissioni di certificazione potranno:

- certificare le clausole inserite nel contratto individuale di lavoro;

- attribuire piena legittimità alle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo contenute nel contratto individuale

- attribuire piena legittimità alla clausola compromissoria che apre la strada all’arbitrato su base equitativa;

- certificare, altresì, “elementi e parametri” che consentono di quantificare gli effetti risarcitori connessi all’art. 8 della legge n. 604 del 1966 (licenziamenti per i quali non è prevista la reintegrazione);

- essere sede per il tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 del codice di procedura civile (comma 13);

- istituire camere arbitrali sia per il lavoro privato che per quello pubblico (comma 12).

 

In virtù delle innovazioni introdotte, occorre quindi domandarsi se, nei fatti, il legislatore ha introdotto una forma di derogabilità assistita del contratto di lavoro. E cioè, se attraverso la procedura di certificazione sarà possibile, per le parti, inserire nel contratto individuale clausole, elementi e parametri che possono discostarsi dalle norme legali e di contrattazione collettiva (di ogni livello ed ambito) poste a tutela del prestatore di lavoro.

 

            Un’interpretazione letterale della nuova disciplina porta ad una risposta positiva alla domanda. L’inciso “nell’interpretazione delle relative clausole”, contenuto, come ora visto, nel comma 2 dell’art. 30, può certamente essere letto nel senso che il riferimento non è alle clausole connesse ad individuare la tipologia del rapporto di lavoro, ma a quelle relative al suo contenuto. Peraltro, mentre la qualificazione del contratto potrebbe essere sempre messa in discussione dal lavoratore per errore, vizi del consenso e difformità tra programma negoziale e l’attuazione del medesimo (come era anche prima), nulla viene disciplinato, in proposito, per quanto attiene le clausole del contratto in esso contenute (ad esempio, la retribuzione, i giorni di ferie, i permessi, ecc.). Sembra eliminarsi, così, la possibilità per il lavoratore di “impugnare” tali clausole peggiorative nel corso del rapporto di lavoro o al suo termine, se le stesse sono state sottoscritte in sede “certificata”.

 

Anche la possibilità di attribuire, attraverso la procedura di certificazione, piena legittimità alle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento contenute nel contratto individuale potrà certamente causare problemi al lavoratore.

 

La legge, come noto, non pone una definizione generale di giusta causa o giustificato  motivo di licenziamento. Le relative tipizzazioni sono, a volte, previste dalla contrattazione collettiva che, in via esemplificativa, individua alcune fattispecie concrete (come ad esempio il furto o le assenze reiterate e  ingiustificate). Nel settore giornalistico, l’art. 50 del CNLG ne prevede solo una, la violazione degli obblighi previsti dall’art. 8 (esclusiva), rinviando per il resto alla generale normativa sui licenziamenti.

 

E’ stato quindi assunto, a questo proposito, un ruolo fondamentale dalla giurisprudenza la quale, nel corso dei decenni, ha individuato i casi concreti di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento

 

Con la “nuova” certificazione sarà invece possibile per le parti fissare, nel contratto individuale di lavoro, ipotesi particolari, anche molto “lievi”, che possono giustificare il recesso da parte del datore di lavoro. Ad esempio, potrà essere prevista l’ipotesi di licenziamento per giusta causa a seguito di minimi ritardi sull’orario di lavoro o errori nell’attività dovuti a minima negligenza ed il giudice sarà quindi vincolato a tali ipotesi, ritenute giusta causa di licenziamento dalle parti all’atto della stipulazione del contratto “certificato”. Un modo, in definitiva, per rendere più agevole il licenziamento.

 

Nel messaggio del 31 marzo 2010, con il quale venne rinviata alle Camere la legge avente contenuto simile alla presente, il Capo dello Stato ricordò al Parlamento che in caso di marcato squilibrio di potere contrattuale tra le parti, la Corte costituzionale aveva avuto già modo di riconoscere la necessità di garantire la effettiva volontarietà delle negoziazioni e delle eventuali rinunce. E’ evidente che un lavoratore, nel mentre può avere l’impellente necessità di stipulare un contratto, può essere “obbligato”, nel momento genetico del rapporto, ad accettare anche alcune clausole peggiorative rispetto alla generale normativa legale e contrattuale posta in suo favore (minimi tabellari, numero di giorni di ferie, ipotesi di recesso, ecc.). Per questo, l’effettiva soggezione del lavoratore, soprattutto nel momento in cui inizia a prestare la sua attività, deve essere contemperata dalla possibile applicazione di tutte quelle norme di origine comunitaria, nazionale o di contrattazione collettiva che negli anni sono state poste a sua tutela. E’ questo un principio di civiltà giuridica che ha oltretutto un fondamento costituzionale, come ricorda proprio il Presidente della Repubblica, che appare violato da questa incisiva forma di derogabilità assistita introdotta dalla nuova normativa.

 

Ma comunque vi è un aspetto da considerare.

 

Se nel contratto di lavoro “certificato” vengono inserite clausole che violano diritti fondamentali o indisponibili, norme comunitarie o costituzionali, disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo, esse si traducono, concretamente, in un atto abdicativo relativo a diritti futuri.

 

La giurisprudenza, in proposito, ha affermato che le rinunzie a diritti non ancora sorti nel patrimonio giuridico del lavoratore (si veda, tra le altre, Cass. 14 dicembre 1998, n. 12548) sono affette da nullità. E tale principio sembra applicabile alle ipotesi di derogabilità assistita realizzata attraverso la certificazione. E’ vero che il lavoratore, in sede di certificazione, non è solo dinanzi al datore di lavoro, ma non si vede come la presenza di una Commissione possa attenuare la sua debolezza. Se decide di accedere alla procedura, vuol dire che ha già accettato le proposte del datore di lavoro, eventualmente condizionato dalle personali necessità.

 

La questione è comunque molto complessa e certamente bisognerà attendere i primi casi che verranno sottoposti alla magistratura per avere un quadro più chiaro delle questioni.

 

Un ultima annotazione è comunque opportuna.

 

La certificazione dei contratti individuali di lavoro può essere richiesta anche per i rapporti di lavoro già in essere e non solo per quelli futuri. In questo caso, “gli effetti dell’accertamento dell’organo preposto… si producono dal momento dell’inizio del contratto, ove la commissione abbia appurato che l’attuazione del medesimo è stata, anche nel periodo precedente alla propria attività istruttoria, coerente con quanto appurato in tale sede…” (art. 31, comma 17). Ma non è chiaro attraverso quali modalità la commissione possa appurare quanto richiesto dalla norma.

 

Conciliazione ed arbitrato

 

            La preventiva ed obbligatoria procedura di conciliazione per tutte le controversie di lavoro è stata introdotta nel 1998 (in precedenza era prevista solo per le controversie aventi ad oggetto il licenziamento). Prima di adire il Giudice, quindi, la parte che intendeva far valere un proprio diritto (con esclusione delle procedure di urgenza o monitorie (i c.d. decreti ingiuntivi)) era obbligata ad esperire in sede sindacale o davanti all’apposita commissione della direzione provinciale del lavoro, un preventivo tentativo di conciliazione e solo successivamente, in caso di mancato accordo, di vana convocazione delle parti, o trascorso un lasso di tempo senza alcuna convocazione (sessanta giorni per il lavoro privato e novanta per quello pubblico), poteva liberamente azionare la causa.

 

            Il provvedimento in esame elimina l’obbligatorietà del prodromico tentativo di conciliazione, tranne i casi in cui si intenda impugnare un contratto di lavoro “certificato”. Il tentativo diventerà quindi una facoltà per chi intende agire in giudizio; una facoltà che, a mio parere, sarà comunque poco utilizzata in quanto la nuova normativa ha disciplinato la relativa procedura in maniera complessa ed articolata. Peraltro, qualora non si raggiunga l’accordo, il Giudice successivamente adito dovrà necessariamente tenere conto di quanto emerso durante la predetta procedura conciliativa. Dispone, infatti, il comma 3 dell’art. 31, che modifica l’art. 411 del codice di procedura civile, che “se non si raggiunge l’accordo, la commissione di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essi sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. Delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio”. Le parti quindi, per non incorrere in valutazioni sfavorevoli in sede di giudizio, non sono certamente incentivate a richiedere l’attivazione della preventiva procedura di conciliazione, soprattutto se hanno la volontà di rimanere ferme (o quasi) sulle rispettive posizioni.

 

            Ma anche all’interno del processo, per quanto attiene la conciliazione, vi è una modifica sostanziale. Il Giudice, se prima doveva limitarsi ad esperire il tentativo di accordo, rimettendosi alla volontà delle parti in proposito, ha ora poteri più incisivi dovendo egli stesso formulare una proposta transattiva; e se la stessa è rifiutata, senza giustificato motivo, il comportamento assunto da chi manifesta il rifiuto diviene un comportamento comunque valutabile ai fini del giudizio.

 

            In qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancato accordo, le parti possono concordemente decidere di affidare alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere, in via arbitrale, la controversia.

 

            La conciliazione e l’arbitrato possono altresì essere svolti presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative. Inoltre, come prevede il nuovo provvedimento legislativo, le controversie di lavoro possono essere proposte innanzi ad un collegio di conciliazione ed arbitrato (c.d. irrituale) costituito ad hoc per accordo delle parti e con le modalità indicate al comma 7 e seguenti dell’art. 31.

 

* * *

           

L’incentivazione all’arbitrato in materia di lavoro (sia privato che pubblico) è uno degli scopi che il nuovo provvedimento si prefigge.

 

            Non vi è dubbio che esso potrebbe essere un valido strumento di deflazione del contenzioso, ma è necessario che vengano assicurati alcuni requisiti, primo fra tutti l’attribuzione alle parti della stessa tutela sostanziale garantita nel giudizio ordinario.

 

Peraltro, come condivisibilmente affermato dalla Corte costituzionale con sentenza del 4 luglio 1977, n. 127, “la giustizia per arbitri dà risultati particolarmente soddisfacenti quando le parti si trovino in posizione di relativo equilibrio” 

 

Questi, quindi, sono i due aspetti essenziali che si devono considerare in materia arbitrale, soprattutto nell’ambito del lavoro:

a) effettività della tutela;

b) sostanziale posizione di equilibrio delle parti.

 

Se mancano (o se ne manca solo uno), non vi è dubbio che l’arbitrato invece di rappresentare un mezzo più agevole per chi si trova nella necessità di promuovere una controversia (quasi sempre il prestatore di lavoro), può rappresentare un mezzo fortemente limitativo dei diritti.

 

Vengo subito al primo punto: l’effettività della tutela.

 

Il provvedimento in esame prevede che in caso di arbitrato, nel conferire il relativo mandato, le parti devono indicare, tra l’altro, “le norme invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.” (art. 31, comma 5).

 

A stretto rigore interpretativo, la richiesta di un giudizio secondo equità è quindi nella libera scelta delle parti. Ciò è conforme a quanto da tempo stabilito dall’art. 822 del codice di procedura civile secondo il quale “gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo che le parti abbiano disposto con qualsiasi espressione che gli arbitri pronunciano secondo equità”. Ma vi è comunque da considerare, anche per ciò che verrà più avanti argomentato in relazione ai tempi e le modalità di sottoscrizione della c.d. clausola compromissoria che introduce l’arbitrato, che la libertà di scelta del lavoratore potrebbe risultare molto ridotta e, comunque, fortemente condizionata.

  

            La giurisprudenza, sul punto, ha avuto modo di esplicitare che gli arbitri, quando sono chiamati a decidere secondo equità, “sono svincolati, nella formazione del loro giudizio, dalla rigorosa osservanza delle regole di diritto oggettivo, avendo facoltà di far ricorso a criteri, principi e valutazioni di prudenza e opportunità, che appaiono più adatti e più equi, secondo la loro coscienza, per la risoluzione del caso concreto, con la necessaria conseguenza che resta preclusa, ai sensi dell’art. 829, comma 2, ultima parte, cod. proc. civ., l’impugnazione per nullità del lodo di equità per violazione delle norme di diritto sostanziale…” (Corte di Cassazione, sentenza del 20 gennaio 2006, n. 1183).

 

            Ma nel complesso sistema del diritto del lavoro, dove le norme legali e di contrattazione collettiva sono essenzialmente poste a tutela della parte debole del rapporto, un giudizio che può prescindere da esse si appalesa un giudizio che ipotizza, di per sé, la concreta possibilità di forte limitazione di tali tutele.

 

            E’ vero che la nuova disposizione fa salvi i principi generali dell’ordinamento e i principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari, ma l’individuazione concreta di tali principi può risultare estremamente difficile, con una conseguente ed ampia discrezionalità da parte degli arbitri.

 

            In proposito, secondo la Corte costituzionale, “si debbono considerare come principi dell’ordinamento giuridico quegli orientamenti e quelle direttive di carattere generale e fondamentale che si possono desumere dalla connessione sistematica, dal coordinamento e dalla intima razionalità delle norme che concorrono a formare, in un dato momento storico, il tessuto dell’ordinamento giuridico vigente.” (Corte Costituzionale 15 giugno 1956, n. 6). Il concetto, come è evidente, è indubbiamente vago e può lasciare spazio, come detto, ad una notevole discrezionalità di giudizio.

 

Un ipotetico elemento di certezza lo si riscontra comunque  nel contenuto delle norme di rango costituzionale che, sempre secondo la Consulta, sono da annoverare tra i principi generali dell’ordinamento (Corte Costituzionale 12 dicembre 1988,  n. 1107). Un collegio arbitrale, ad esempio, non potrà mai negare il diritto alle ferie di un lavoratore, garantito dall’art. 36 della Costituzione ma la certezza è comunque relativa perché potrà ridurre, in via equitativa, il numero dei giorni stabiliti dalla contrattazione collettiva. Lo stesso può accadere per la disciplina del riposo settimanale, garantito dalla costituzione nel principio, ma di fatto regolato dalla legge e dalla contrattazione collettiva per le sue modalità applicative (termini temporali, maggiorazioni retributive, ecc.).

           

Il problema, inoltre, potrebbe porsi anche per la retribuzione.

 

            Sempre il citato art. 36 della Costituzione garantisce una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e comunque sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa. Non è la Costituzione, però, ad individuare il parametro retributivo che invero, per giurisprudenza costante, emerge dalla contrattazione collettiva di settore; contrattazione che può anche essere utilizzata, ma con alcune riduzioni, in caso di mancanza di una specifica disciplina collettiva applicabile al caso concreto. Anche da ultimo la Suprema Corte di Cassazione ha avuto occasione, in proposito, di affermare che "il giudice di merito, nel determinare il compenso o la retribuzione base spettante al lavoratore subordinato, può, nel caso di mancanza di una specifica contrattazione di categoria, utilizzare alla stregua dell'articolo 36 Cost., la disciplina collettiva di un settore - diverso da quello in cui di fatto ha operato il datore di lavoro - a semplici fini parametrali o di raffronto per la determinazione della sola retribuzione base spettante al lavoratore subordinato (senza riguardo agli altri istituti contrattuali). Tale determinazione puo' essere impugnata dal lavoratore in cassazione ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e/o disapplicazione del criterio giuridico della sufficienza della retribuzione - volto a garantire la soddisfazione dei bisogni di una esistenza libera e dignitosa - nonché di quello della proporzionalità - volto a correlare la stessa retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, rimanendo di contro l'apprezzamento in concreto dell'adeguatezza della retribuzione, riservato al giudice di merito". (Cass. 29 marzo 2010, n. 7528).

 

            Il giudizio arbitrale equitativo non garantisce quindi, alla luce di quanto ora esposto, il rispetto di tale principio.

 

            Altra questione, sempre con riferimento al problema dell’effettività della tutela, è quella relativa alla possibilità di impugnazione della decisione (definita lodo). Come noto, in un giudizio ordinario la parte dispone di due gradi di merito (Tribunale e Corte di Appello), nonché di un grado di legittimità (Corte di Cassazione). Con l’arbitrato non vi è invece la garanzia di una possibile riforma della decisione, se non per questioni strettamente formali.

 

            Il lodo, infatti, per espressa disposizione contenuta nel provvedimento in esame,  è impugnabile in unico grado davanti al Tribunale in funzione di giudice del lavoro, ai sensi dell’articolo 808 – ter del codice di procedura civile. Tale articolo prevede l’annullabilità del lodo solo per ragioni di invalidità attinenti alla clausola compromissoria, per pronuncia che esorbita i limiti imposti in detta clausola, per motivi attinenti alla formazione del collegio arbitrale, per violazione del contraddittorio. Il Tribunale, pertanto, non ha il potere di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di annullare il lodo se ricorrono i vizi ora indicati o di confermarlo se tali vizi non sussistono.

           

La procedura arbitrale, secondo quanto stabilito numerose volte dalla Corte Costituzionale, non può mai essere obbligatoria (ad esempio, si possono vedere in proposito le sentenza n. 127 del 4 luglio 1977; n. 488 del 18 dicembre  1991; n. 221 del 6 giugno 2005, ed altre).

 

            Il motivo principale per cui il Presidente della Repubblica, nel marzo scorso, rinviò alle Camere il provvedimento legislativo che recava norme analoghe all’odierno, fu proprio rappresentato dall’introduzione, di fatto, di tale obbligatorietà. La precedente normativa, infatti, confermava la generale facoltatività del giudizio arbitrale, ma prevedeva poi la possibilità di inserire, al momento della sottoscrizione del contratto di lavoro “certificato”, la clausola compromissoria, che avrebbe obbligato il prestatore di lavoro di devolvere ad arbitri le eventuali controversie relative al  rapporto di lavoro.

 

In tal modo, a parere del Capo dello Stato (e non solo di quest’ultimo) sarebbe venuta meno la sostanziale posizione di equilibrio delle parti, proprio perché è nel momento genetico del rapporto che vi è la più ampia disparità di forza tra lavoratore e datore di lavoro. Se il prestatore di lavoro è nella necessità di stipulare un contratto, il datore di lavoro può agevolmente richiedere la sottoscrizione del medesimo in sede certificata, inserendo in esso la clausola arbitrale.

 

Il nuovo provvedimento mantiene il principio della generale facoltatività della procedura arbitrale e, rispetto alla precedente versione, pone alcune modifiche per cercare di superare le censure mosse dal Presidente delle Repubblica.

 

Il comma 10 dell’art. 31, dopo aver premesso che “la clausola compromissoria, a pena di nullità, deve essere certificata… dagli organi di certificazione…” dispone che “le commissioni di certificazione accertano, all’atto della sottoscrizione della clausola compromissoria, la effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro. La clausola compromissoria non può essere pattuita e sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, ovvero se non siano trascorsi trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, in tutti gli altri casi. La clausola compromissoria non può riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro…”

 

Il momento in cui può essere sottoscritta la clausola compromissoria (che comunque non può riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro)  è quindi spostato in avanti. Non più all’atto della stipula del contratto di lavoro ma dopo il superamento del periodo di prova o, comunque, dopo trenta giorni. E’ vero che ciò “rafforza” parzialmente la posizione del lavoratore; ma è altrettanto vero che quest’ultimo, nel caso in cui decida di non sottoscrivere la clausola proposta dal datore di lavoro subito dopo l’assunzione, rischia di compromettere comunque la sua posizione nell’impresa. Peraltro, è presumibile che il datore di lavoro, nel momento in cui decide di assumere il dipendente, preannunci in anticipo l’intenzione richiedere la sottoscrizione della clausola arbitrale appena maturato il termine, assicurandosi un impegno “morale” del prestatore il quale, dopo poco tempo, sarà psicologicamente vincolato ad accettare. Il vincolo psicologico rimane e ciò limita fortemente la libertà di scelta, anche se davanti alle commissioni di certificazione (così prevede la nuova disciplina) le parti potranno farsi assistere da un legale di fiducia  o da un rappresentante sindacale.

 

E’ comunque opportuno sottolineare un ulteriore aspetto in merito all’arbitrato, che coinvolge direttamente le prerogative sindacali.

 

Il primo inciso del citato comma 10 dell’art. 31 prevede che la pattuizione delle clausole arbitrali, nei termini e con le modalità ora illustrate nei tratti essenziali, è possibile solo “ove ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.”

 

Ma, prosegue la norma, “in assenza degli accordi interconfederali o contratti collettivi… trascorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali convoca le (predette) organizzazioni al fine di promuovere l’accordo. In caso di mancata stipulazione dell’accordo di cui al periodo precedente, entro i sei mesi successivi alla data di convocazione, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con proprio decreto, tenuto contro delle risultanze istruttorie del confronto tra le parti sociali, individua in via sperimentale, fatta salva la possibilità di integrazioni e deroghe derivanti da eventuali successivi accordi interconfederali o contratti collettivi, le modalità di attuazione e di piena operatività delle disposizioni di cui al comma 10.”

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