Confermate in Appello le condanne per le minacce rivolte in aula a Napoli, nel 2008, durante il processo 'Spartacus', a Rosaria Capacchione e Roberto Saviano. Con la sentenza emessa nel pomeriggio del 14 luglio 2025 dai giudici della Prima sezione della Corte di Appello di Roma è stata ribadita la decisione di primo grado del 24 maggio 2021 che ha riconosciuto le minacce aggravate dal metodo mafioso condannando il boss del clan dei Casalesi Francesco Bidognetti a un anno e sei mesi e l'avvocato Michele Santonastaso a un anno e due mesi.
«La condotta ascritta ai due imputati è inserita nel contesto di criminalità organizzata proprio della cosca dei Casalesi di cui Bidognetti era capo. La minaccia e l'intimidazione rivolta platealmente contro i due giornalisti fu espressione di una precisa strategia ideata dallo stesso capomafia, il cui interesse era quello di agevolare ed alimentare il potere di controllo sul territorio esercitato dal clan e di rafforzarne il potere», avevano scritto i giudici della Quarta sezione penale del Tribunale di Roma nelle motivazioni della sentenza di primo grado.
La sentenza della Corte d'Appello riconosce in pieno il ruolo della Fnsi, rappresentata in giudizio quale parte civile dall'avvocato Giulio Vasaturo.
«Minacciare chi fa informazione deve avere un costo, come chiarisce la sentenza di condanna in secondo grado per il cosiddetto 'proclama' Spartacus. Una sentenza che dovrebbe far riflettere e portare ad una aggravante in caso di minacce ai giornalisti, così come è accaduto per medici e infermieri. Aggravante per la quale c'è già una interlocuzione fra Fnsi e il ministero dell'Interno attraverso il tavolo di monitoraggio sui cronisti minacciati», ha dichiarato Alessandra Costante, segretaria generale della Federazione nazionale della Stampa italiana.
«Mi hanno rubato la vita», il commento a caldo di Saviano che, alla lettura della sentenza, ha abbracciato in lacrime il suo legale, l'avvocato Antonio Nobile mentre dal pubblico presente in aula è partito un applauso.
«Sedici anni di processo non sono una vittoria per nessuno ma ho la dimostrazione che la camorra in un'aula di tribunale, pubblicamente ha dato la sua interpretazione: che è l'informazione a mettergli paura. Ora abbiamo la prova ufficiale in questo secondo grado che dei boss con i loro avvocati firmarono un appello dove - ha sottolineato lo scrittore - misero nel mirino chi raccontava il potere criminale. E non attaccarono la politica ma il giornalismo insinuando che avrebbero ritenuto i giornalisti, e fu fatto il mio nome e quello di Rosaria Capacchione, i responsabili delle loro condanne. Non era mai successo in un'aula del tribunale, in nessuna parte del mondo».
Per Rosaria Capacchione, «questa sentenza è un punto fermo. Sono diciassette anni e mezzo di vita passati a pensare a quel documento letto in aula, al significato, alle ripercussioni. È un pezzo di vita, un pezzo di vita importante che ha condizionato l'esistenza professionale».