“La caccia all’uomo scatenata dalla dittatura di Gheddafi contro i manifestanti diventa ogni ora che passa sempre più ossessiva e cieca. La decisione di considerare i giornalisti non accreditati presso le autorità (?) come i terroristi di Al Qaeda suscita orrore e richiede la massima iniziativa delle democrazie del mondo e degli organismi internazionali. Le lotte per la libertà e i diritti dell’uomo hanno nei giornalisti testimoni essenziali che non possono essere assunti al rango dei nemici.
Le difficoltà di intervento a tutela dei diritti umani, e anche dei movimenti della libera informazione internazionale, sono evidenti ma gli allarmi di oggi rendono necessaria una incisiva iniziativa delle principali istituzioni libere del mondo. I crimini contro l’umanità non sono più, a questo punto, catalogabili entro stretti confini di una casistica classica.
La Fnsi denuncia la gravità di quanto sta accadendo è vicina, con la Federazione Internazionale dei Giornalisti, a tutti i colleghi che stanno continuando ad operare nonostante i pericoli e le difficoltà enormi note a tutti, nell’incandescente teatro libico. E accanto a loro, dall’Italia rilanciano anche i drammatici messaggi pervenuti da profughi eritrei, etiopi e somali, molti dei quali respinti “come clandestini” qualche tempo fa dall’Italia, che son riusciti a far pervenire alla Fnsi notizie sconvolgenti di terrore e morte. Grida di aiuto, appelli perché i ponti umanitari per portarli fuori dalla Libia non siano chiusi a loro, considerati “figli di nessuno”, che rilanciamo all’attenzione pubblica”.
LIBIA: TRIPOLI, GIORNALISTI SENZA VISTO 'COMPLICI AL QAIDA'
CHE ENTRATO ILLEGALMENTE SI PRESENTI AUTORITÀ O SARÀ ARRESTATO
TRIPOLI, 23 FEB - Il viceministro libico degli Esteri, Khaled Kaim, ha affermato oggi che i giornalisti entrati illegalmente in Libia saranno considerati come ''collaboratori di al Qaida'' e ''come dei fuorilegge''.
''Ci sono dei giornalisti che sono entrati illegalmente e noi li consideriamo ormai come collaboratori di al Qaida, come dei fuorilegge e non siamo responsabili per la loro sicurezza. E se non si presenteranno alle autorità saranno arrestati'', ha detto il viceministro ai giornalisti.
''Abbiamo autorizzato tre troupe di Cnn, al Arabiya e Bbc in arabo di entrare in Libia. Un corrispondente di Cnn che è entrato illegalmente deve unirsi alla troupe, altrimenti verrà arrestato'', ha aggiunto Kaim. (ANSA-AFP)
ANSA-REPORTAGE/ LIBIA:IO FUGGITA,HO LASCIATO AMICI NELL'INFERNO
COLLABORATRICE ANSA RIENTRA,IL RACCONTO DELLA TRAGEDIA A TRIPOLI
(di Francesca Spinola)
ROMA, 23 FEB - ''Se entro domani a quest'ora non ti avrò richiamato, ci rivedremo nella casa di Dio: questo è il sangue che dobbiamo versare per la nostra libertà''. Le ultime parole che mi dice al telefono. È pomeriggio inoltrato quando mi chiama A. (non faccio il suo nome perché non so se sia vivo o morto), un poliziotto, uno di quelli buoni, che mi ha preso in simpatia dal primo giorno che ci siamo conosciuti. Me lo hanno messo alle calcagna tanto tempo fa, per controllare quello che facevo, in un Paese dove i giornalisti sono merce rara e io ero l'unica straniera ad avere un accredito stampa permanente.
"Hanno sparato a tre detenuti", mi dice con la voce trafelata e il suo italiano stentato. Passano pochi minuti e mi richiama, "no sono sei, ne hanno uccisi sei". Quasi certamente detenuti politici entrati in contatto con le famiglie di Bengasi che devono avergli detto della rivolta, della speranza di farcela.
Si sono ribellati e la polizia non ha esitato: sei colpi per sei teste. Così si fa in Libia, da sempre. A. è terrorizzato. Mi dice che a Bengasi hanno appena ucciso un suo cugino di 23 anni. Non l'ho più sentito. E quelle 24 ore sono passate.
E una delle tante 'istantanee' che porto con me oggi, mentre l'aereo che mi sta riportando in Italia con la mia famiglia, stacca le ruote dal suolo libico. Mi tornano in mente tanti volti, immagini, momenti vissuti su quella terra che si allontana. E mi tornano in mente gli ultimi giorni, i più difficili e drammatici.
L'inferno vero a Tripoli inizia il 19 febbraio. Incontro Rhim dal macellaio della Gargaresh, una lunga arteria che porta dall'ovest della città verso il centro. Facciamo scorte di cibo perché‚ l'aria che tira è tesa. Dentro, sul bancone di Abdhalla, è comparsa una foto di Muammar Gheddafi che campeggia sulla canna di una grande pistola esposta da tempo come trofeo. Non è chiaro se la canna sia solo un supporto per un fan del Leader o un sottile gioco dove la testa del colonnello è il bersaglio dell'arma. Questa è Tripoli da quando Bengasi e tutta la Cirenaica sono in guerra. Un posto dove ci si guarda con
sospetto. Dove nessuno sa più da che parte stare. Dove il tuo vicino potrebbe trasformarsi nel tuo carnefice. Così si ascolta in silenzio la carneficina che insanguina la Cirenaica e la battaglia dei propri amici, compagni, cugini: In Libia sono una manciata di milioni e pare che tutti siano imparentati fra loro.
"Sono i più giovani quelli che stanno morendo", mi dice Rhym. "Sono ragazzi nati negli anni 90, gente che non ha paura perché‚ non ha già sofferto". Poi con le lacrime che stenta a trattenere mi dice che a Bengasi sono morti due suoi conoscenti di 13 anni.
Dal tardo pomeriggio del giorno prima Tripoli è attraversata dalle raffiche dei mitra che accompagnano le ore nel corso dell'intera notte, fino al mattino, quando tutto si placa. Mi muovo in una città dimezzata. Metà del traffico, di solito impossibile. Metà dei ragazzi per strada. Metà dei negozi aperti e su tutto un vento che non accenna a smettere e la stanchezza aggiunge stordimento. Ma anche paura. Chiamo amici, informatori,
voglio sapere come stanno, cosa pensano che accadrà, quale sarà la prossima mossa di un capo che è in Libia da tutta la loro vita. Ma la risposta è sempre la stessa: "abbiamo paura". Sono paralizzati. Stanno nelle loro case in attesa di qualcosa che solo loro sembrano conoscere già: la ferocia. Che non tarda.
Perdo il conto dei morti perché‚ nessuno che io conosca osa avventurarsi per la città durante la notte e non ci sono report o immagini. Noi giornalisti siamo controllati a vista. Io sono stata presa dalle forze di sicurezza in borghese solo qualche giorno prima che tutto avesse inizio a Tripoli: un avvertimento.
Domenica 20 mi accorgo che mi hanno bloccato il cellulare. Scopro poi che lo hanno fatto anche ad altri tre colleghi. Il pomeriggio dello stesso giorno un impiegato della LTT, la compagnia telefonica, mi avverte che ci sarà un blocco totale delle comunicazioni. Faccio appena in tempo a chiamare il Vescovo di Tripoli, Monsignor Giovanni Martinelli. Mi racconta delle vicissitudini dei religiosi in Cirenaica. Chiese e case assaltate. Il blocco di tutte le comunicazioni è il campanello di allarme. Una notte di vera odissea: La città si svuota di cittadini e si riempie di ronde dei comitati rivoluzionari, la spina dorsale del regime libico.
Armati di fucili controllano le strade e sono pronti a sparare ai manifestanti, circa 3.000 persone che si stanno riversando dalle cittadine circostanti verso il centro città. Danno fuoco a cassonetti, macchine, a tre caserme della polizia. Le raffiche di mitra accompagnano le grida, i clacson, i cori.
Una notte da incubo: Molti forzano i portoni delle case per entrare negli androni. Il discorso di Seif Al Islam, catalizza l'attenzione e subito delude i libici che credevano in lui.
Il 21 febbraio è chiaro a tutti: Tripoli è nel caos. Fra supporter e manifestanti, polizia ed esercito, forze di sicurezza e mercenari, nessuno sa più a chi credere. La città è un fantasma di se stessa. Di giorno è terra di nessuno. Poi all'improvviso compaiono posti di blocco di gente in borghese e armata. È il momento della grande fuga. L'aeroporto è preso d'assalto. Lo spazio aereo è chiuso a tratti e attraversato da elicotteri per trasporto truppe. I mercenari di Gheddafi? Non c'è tempo nemmeno per darsi una risposta.
Tutti fanno fagotto. L'aeroporto di Tripoli è un girone dell'inferno. Migliaia di persone accalcate in attesa di un volo. Fra loro molti tunisini ed egiziani terrorizzati. Il regime li ha presi di mira: è anche colpa loro se la Libia è esplosa. Io impiego due giorni a raggiungere l'aeroporto. È il 22 quando un charter dall'Italia ci viene a prendere. L'aereo decolla e l'applauso è liberatorio. (ANSA)
ANSA-REPORTAGE/ LIBIA:TENSIONE A TRIPOLI, GIORNALISTI MALMENATI
CITTÀ ASSEDIATA, AEROPORTO AL COLLASSO, POSTI BLOCCO MILIZIANI
(dell'inviato Marco Brancaccia)
TRIPOLI, 24 FEB - Fuga da Tripoli. Arrivando la prima cosa che si vede sono migliaia di persone, tra cui molte donne e bambini, che bivaccano da giorni tra escrementi e rifiuti nell'aeroporto della capitale libica in condizioni al limite dell'emergenza sanitaria in attesa di un volo che li porti via dall'inferno. Nella bolgia sono finiti moltissimi lavoratori egiziani e tunisini, vessati dalle autorità perché ritenuti responsabili di aver esportato oltre il confine libico il germe della rivolta. Ma ci sono anche molti occidentali, e anche qualche italiano. Il traffico aereo è rallentato e diverse compagnie aeree, tra cui l'Alitalia, hanno cancellato i loro voli per motivi di sicurezza.
Fuori dallo scalo sono accampati centinaia di disperati che trascorrono la notte, in un freddo pungente, riparati solo da coperte sudice. In terra ogni tipo di rifiuti e decine di borse, valigie e fagotti sventrati: abiti e scarpe sono disseminati in terra fradici per le intense piogge dei giorni scorsi.
Attraversare quella marea umana è un'impresa. A controllarla solo pochi agenti di polizia in divisa e con la mascherina protettiva su bocca e naso. Nessun medico, né infermiere.
Spiccavano solo due incaricati dell'ambasciata britannica con pettorina arancione che si aggiravano alla ricerca di loro connazionali.
La situazione nella capitale libica, ormai ultima roccaforte del regime di Gheddafi è esplosiva. L'atmosfera di apparente calma è squarciata da episodi di fortissima tensione. Come quello capitato ad un gruppo di giornalisti italiani, tra cui l'inviato dell'ANSA, giunti oggi a Tripoli su invito del governo e con regolare visto di ingresso rilasciato dall'ambasciata della Jamahyria a Roma. Viaggiavamo su tre automobili private guidate da autisti libici contrattati in aeroporto, quando siamo stati fermati lungo la strada che collega lo scalo aereo con Tripoli da alcuni miliziani armati di Kalashnikov e in abiti civili. Uno di noi, Fabrizio Caccia del Corriere della Sera, è stato schiaffeggiato violentemente e preso a calci da un miliziano con il Kalashnikov a tracolla solo per aver detto di essere italiano. I miliziani ci hanno sequestrato i telefoni satellitari e controllato tutti i bagagli. Sono stati momenti drammatici, soprattutto quando Caccia è stato portato dai miliziani in una casupola di legno al margine della strada. A quel punto abbiamo mostrato i nostri passaporti con i visti del governo libico e la situazione si è sbloccata dopo che uno dei miliziani ha chiamato i suoi superiori per radio e ha avuto l'ordine di farci proseguire. Prima ci hanno riconsegnato i telefoni satellitari e gli altri bagagli. Per questo episodio il ministero degli Esteri ha fatto una protesta formale e ha chiesto all'ambasciatore a Tripoli Vincenzo Schioppa di ribadire alle autorità libiche la necessità che l'incolumità e il lavoro dei giornalisti siano tutelate.
Lungo la strada che collega l'aeroporto a Tripoli stazionano miliziani armati, pochissimi gli agenti in divisa. Il traffico è meno intenso del normale ma le strade, almeno per quanto abbiamo visto nel tragitto fino al nostro albergo, non sono deserte. I primi segnali dell'accerchiamento alla città si notano nell'approvvigionamento delle merci: scarseggiano alcuni generi di prima necessità, come il latte per bambini. I collegamenti sono difficili e le schede telefoniche introvabili.
Chiuse anche le banche. Una manna per gli speculatori che fanno affari d'oro con la borsa nera, cambiando valuta e vendendo cibo ai disperati dell'aeroporto. (ANSA)